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Il bancario prestato all’automotive

Fausto de Berardinis: «Sono tra i pionieri del noleggio a lungo termine»

Il bancario prestato all’automotive

Fausto de Berardinis

Laureato in giurisprudenza, Fausto de Berardinis ha fatto una brillante carriera nel settore bancario ricoprendo cariche di alto livello. È quindi entrato nel mercato dell’automotive come agente LeasePlan, multinazionale del noleggio a lungo e medio termine Da giovane ha praticato canottaggio e tennis. È appassionato di moto e di fotografia.
«Sono nato a piazzetta Aniello Falcone. Quando avevo quattro anni la mia famiglia si spostò in viale Michelangelo e i miei genitori mi iscrissero all’asilo “Notre Dame de la Compassion” a via Luigia Sanfelice, per i vomeresi “la Santarella”, gestito dalle suore compassioniste. Ne ho un pessimo ricordo perché il primo giorno la direttrice ci mostrò “la stanza del carbone” dicendoci che se non facevamo i buoni ci avrebbe rinchiuso lì dentro con la luce spenta. Ero un piccolo ribelle contrario a ogni forma di imposizione e dopo qualche giorno feci un’impertinenza all’ora di pranzo che mi costò l’espulsione dall’istituto».
Che cosa combinò di tanto grave?
«Il primo piatto lo portavamo da casa mentre il secondo era fornito dalle suore. Quel giorno mamma mi cucinò la pastina in brodo ma invece del cucchiaio mi diede la forchetta. Chiesi alla suora di turno al refettorio se poteva darmi un cucchiaio e lei mi rispose di mangiare la pastina con la forchetta. Non l’avesse mai detto: salii sul tavolo e le rovesciai in testa tutto il contenuto bollente del thermos. Urlando di dolore e di rabbia la suora mi portò in direzione. Non contento di quello che avevo fatto, mi appesi alle “pigne” dell’orologio a Cucù che si trovava sulla parete dell’ufficio. Rovinammo pesantemente al suolo e l’orologio tanto caro alla direttrice si distrusse. Fui espulso! Mamma mi disse: “tanto hai fatto che sei riuscito a farti cacciare dalle suore”. Mi iscrissero alla scuola pubblica dove continuai fino alla licenza media».
E dopo?
«In famiglia c’era la tradizione non solo di fare gli studi classici ma di iscriversi all’istituto Pontano tenuto dai padri gesuiti. Il mio animo ribelle non si era per niente placato e quando al primo anno cominciarono a serpeggiare tra noi studenti i malumori per quello che stava accadendo in Vietnam, decidemmo di partecipare a una manifestazione di protesta organizzata da altri licei napoletani. Il preside non ci autorizzò. Il giorno dopo mi presentai con una robusta catena, l’avvolsi intorno ai due battenti del cancello e la bloccai con un catenaccio. Questa bravata mi costò l’espulsione anche dal Pontano dopo pochissimi mesi di iscrizione. Passai al Settimo Scientifico, l’attuale Tito Lucrezio Caro a via Manzoni».
Contemporaneamente cominciò la sua attività sportiva.
«Mi appassionai al tennis e lo praticavo insieme a mio fratello al Circolo Tennis Vomero. Il presidente era il cognato di mamma, Renato Coppola, il titolare dell’omonimo negozio di abbigliamento di via Scarlatti. Insieme al bar pasticceria Daniele erano meta obbligata dei vomeresi dai gusti raffinati nel vestire e di palato fino per il caffè e le paste. Purtroppo questi esercizi commerciali, fiore all’occhiello del quartiere, sono stati chiusi da tempo. Al tennis affiancavo il canottaggio che praticavo al circolo Savoia con il mitico allenatore Marcello James».
Riusciva a conciliare studio e sport?
«Il tennis era gestibile, il canottaggio no perché gli allenamenti come orari e come fatica erano troppo impegnativi. Dovetti limitare gli incontri su terra battuta ai fine settimana e, a malincuore, abbandonare dopo qualche anno completamente la voga. Avevo anche conosciuto Maria Teresa, mia futura moglie, che contribuì a darmi maggiore equilibrio nella mia vita di giovane “ribelle”. Abbiamo tre figli e tra poco festeggeremo quarantasei anni di matrimonio».
Cosa fece dopo la maturità scientifica?
«Mi presi “un anno sabbatico” per riflettere. Papà era uno stimato avvocato penalista con uno studio affermato, ma la sua era una professione che non mi attirava. Ciononostante mi iscrissi alla facoltà di giuriprudenza e sostenni i primi sei esami. Mio zio, dirigente del Banco di Napoli, istituto nel quale mio nonno aveva ricoperto la carica di vice direttore generale, seppe che non avrei voluto seguire le orme paterne. Mi diede l’elenco di tutte le banche italiane consigliandomi di inviare la domanda di assunzione a ciascuna di loro. Mandai 250 lettere e mi rispose solo il Banco di Santo Spirito. Andai a Roma e sostenni un colloquio; mi richiamarono una seconda volta per dirmi che dove fare la visita medica propedeutica all’assunzione. Mi assegnarono alla filiale di Ceprano, a metà strada tra Roma e Napoli. Dopo circa un anno il capo del personale mi convocò in direzione e mi disse che mi avrebbero voluto trasferire alla sede di Napoli appena aperta. Era necessario, però, che mi laureassi. A mia volta chiesi di farmi ruotare in tutti i settori della filiale perché volevo conoscere a fondo ogni singolo reparto. La mia naturale tendenza era quella di non specializzarmi in un unico settore e ingessarmi in quello, ma cambiare perché la curiosità fa parte del mio essere. Rispettammo i nostri impegni. Mi laureai e la banca mi fece fare esperienza all’ufficio titoli, al portafoglio clienti, alla contabilità e al delicatissimo ufficio fidi. Ebbi la promozione a capo reparto e poi a vice capo ufficio. Quando l’istituto acquistò un intero edificio a via Toledo, diventai capo ufficio con la responsabilità di uno dei quattro settori del Servizio Fidi. Avevo 26 anni e mi sposai con Maria Teresa».
Poi arrivò la notizia che il “Palazzo” a Roma aveva deciso che il Banco di Santo Spirito dovesse confluire nella Cassa di Risparmio di Roma.
«Era il 1989 e per me fu un fulmine a ciel sereno. Un piccolo istituto di credito a livello regionale diventava proprietario di uno a livello nazionale! Decisi che dovevo andare via e cominciai a consultare le pagine di ricerca di personale del “Sole 24 ore” e del “Corriere della Sera”. Risposi all’inserzione della Citybank; mi convocarono a Milano e mi assunsero come funzionario nella sede centrale. Facevo la spola tra la città meneghina e Napoli dove era rimasta mia moglie. Non ebbi neanche il tempo di ambientarmi che mi proposero di ritornare nella mia città come settorista, cioè come responsabile dei settori merceologici con delega alla firma, in una banca che la multinazionale aveva acquistato da poco. Contavano sul fatto che conoscevo l’ambiente e soprattutto le aziende del territorio. Naturalmente accettai e la mia nuova sede di lavoro fu in via De Pretis, nel palazzo dove ora c’è la Msc».
Come si trovò in questa nuova realtà?
«Fu un trauma, perché la qualità professionale delle persone che stavano in quella banca era veramente molto scadente e non riuscivo a capire la logica che aveva sotteso quell’operazione. La spiegazione me la diede un amico il quale mi confidò che le ragioni erano politiche e non tecniche. Dopo un po’ mi accorsi che la gestione degli americani era qualcosa di pazzesco. Si ritenevano i nuovi conquistatori del mondo e più di una volta ho avuto discussioni con la direzione generale. La goccia che fece traboccare il vaso fu la decisione di concedere il piccolo prestito personale senza la cambiale a garanzia. Controllavo anche due agenzie e chiamai i rispettivi direttori diffidandoli dal fare simili operazioni. Nel giro di un anno e mezzo ci fu un ritorno di insolvenze impressionante e dovette intervenire la Banca d’Italia».
La banca poi cambiò padrone.
«Il Banco Ambrosiano Veneto acquisì il controllo della City Bank Italia. Ben presto la modesta qualità del personale venne a galla. La direzione scelse una quarantina di funzionari, tra i quali c’ero anche io. Ci convocarono a Milano dove fummo esaminati da un “tagliatore di teste” appartenente a una società di consulenza e di gestione del personale esterna. Sorprendentemente il consulente mi apprezzò molto al punto che la nuova “proprietà” mi diede l’incarico di dirigere la filiale di Rimini con il compito di avviare il progetto di autogestione delle filiali, affiancando a quella di Rimini altre agenzie. Ripresi i contatti con tutti gli imprenditori che avevo conosciuto nelle mie precedenti esperienze di bancario e li acquisii come nuovi clienti. Riuscii a portare in break even Rimini e le altre agenzie. Visti i risultati, mi proposero di andare a dirigere la nuova sede che stavano aprendo a Salerno. Accettai e in poco più di un anno portai in pareggio anche questa filiale. Quindi Afragola e Napoli, via Cilea e contemporaneamente anche Soccavo».
Nonostante questa brillante carriera decise, però, di lasciare il mondo bancario. Perché?
«La direzione generale volle creare tre aree per il settore che si occupava degli investimenti delle grandi aziende e dei più importanti imprenditori loro clienti. Si affidò per la realizzazione del progetto alla Boston Consulting Group. Scelsero tre funzionari (nord-centro e sud) per collaborare con la Boston Consulting e creare il nuovo servizio. Ripresi la spola tra Milano e Napoli (tre giorni ad Afragola - che dirigevo - e due a Milano). Era stressante e cominciavo a non avere più stimoli nel mio lavoro. Concluso positivamente il lavoro con Boston Consulting, a seguito dell’acquisto da parte del Banco Ambrosiano Veneto della Banca Massicana, fui inviato alla sede centrale con l’incarico di curare la fusione per incorporazione delle 11 filiali di quell’istituto di credito con l’Ambrosiano. È stata un’esperienza dura, ebbi anche varie minacce. A livello familiare, poi, ero diventato padre di tre figli. Decisi che avrei dovuto lasciare il mondo bancario. L’occasione me la diede il direttore generale della Boston Consulting Group, diventato mio amico. Era stato nominato amministratore delegato della LeasePlan Italia».
Ci spieghi.
«La LeasePlan è una società internazionale di origini olandesi, specializzata nel noleggio di auto e furgoni e nella gestione delle flotte aziendali. Il mio amico mi disse che aveva bisogno di una persona con le mie capacità e conoscenze. Mi avrebbe dato il mandato operativo per tutto il territorio nazionale».
Accetto?
«Posi come condizione che avrei lavorato in assoluta autonomia utilizzando i sistemi di valutazione della società. Acconsentì. Trattai le mie dimissioni con la banca nel migliore dei modi e iniziai questa nuova avventura».
È sbagliato definirla uno dei pionieri del noleggio automobilistico a lungo termine in Italia?
«Questo servizio è apparso sul mercato italiano molto tardi rispetto agli Usa e agli altri paesi europei per via dello scetticismo dei dirigenti aziendali. Se ne è cominciato a parlare negli anni ’80 nel Nord Italia. Da noi, al Sud, questa nuova modalità alternativa all’acquisto di un’auto era praticamente sconosciuta. Ricorsi al portafoglio clienti che mi ero costituito come bancario e acquisii presto una discreta clientela che poi è aumentata in maniera esponenziale».
Che cosa significa in concreto essere agente autonomo?
«Sono il diretto intemediario tra società e cliente senza alcun altro passaggio intermedio, come ad esempio il call center. Questo status mi rende privilegiato rispetto a gli altri operatori del settore. Sono stato autorizzato anche ad avvalermi della collaborazione di tre partner che mi fanno essere presente su un territorio sempre più vasto».
Quando è andato in “pensione” ha ufficialmente passato il testimone al suo secondogenito Fabrizio.
«Gli ho trasferito tutti i mandati. Si è rivelato molto bravo in tempi relativamente brevi ed è stato nominato Specialist per Napoli di Unipol Rental. Abbiamo un indice di insolvenza molto basso perché abbiamo sempre utilizzato i criteri ai quali ricorrevo in banca quando concedevo un fido».
Attualmente che cosa fa?
«Il consulente di Fabrizio a titolo gratuito».

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