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Maurizio Cardillo, biologo impegnato nel territorio

«Non esiste una sanità pubblica e una privata, ma solo la sanità»

Maurizio Cardillo, biologo impegnato nel territorio

Maurizio Cardillo

Maurizio Cardillo è laureato in Scienze Biologiche e specializzato in Patologia Clinica. È il direttore tecnico dell’Istituto Medico Polidiagnostico Cardillo. È amministratore del “Gruppo Cardillo srl” e socio del “Consorzio Opus srl”.
«Rivendico sempre le mie origini napoletane, anche se mio padre è del beneventano e mia madre dell’avellinese, e sono un convinto meridionalista. Sono nato e vissuto nel quartiere Arenella, nella parte alta della collina del Vomero, dove ho frequentato le scuole primarie e medie mentre per le superiori ho frequentato il liceo classico Jacopo Sannazaro. Amo le lingue straniere perché avrei voluto girare il mondo, ma l’iscrizione al liceo linguistico non era compatibile con la tradizione familiare che voleva che tutti studiassero materie umanistiche. Papà si era trasferito a Napoli perché aveva scelto la facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi di Napoli. Si era laureato e specializzato in Odontoiatria e in Igiene, ma aveva sempre voluto esercitare la professione di medico. Mamma, dal canto suo, era laureata in farmacia. Ho fatto sport fin da ragazzino, calcio e tennis fino a diventare classificato in questa disciplina. La mia passione, però, era il tennis da tavolo dove ho giocato in serie C».
Dopo la licenza liceale s’iscrisse a medicina per seguire le orme paterne?
«Mio padre, insieme a mia madre, nel 1973 aveva aperto un laboratorio di analisi cliniche e ne era il direttore responsabile. La sede era in via Giulio Palermo, nel Rione Alto. Questo insolito “toponimo” mi ha sempre incuriosito. Qualche anno fa leggendo un’intervista rilasciata dall’ingegnere Corrado Ferlaino al quotidiano “Roma” ho appreso che fu proprio lui ad imporlo ai costruttori quando procedette alla vendita dei lotti. Con quel nome intendeva sottolineare la signorilità della zona residenziale che sarebbe stata costruita. Non a caso i toponimi delle strade sono tutti di medici e scienziati. Ritornando alla mia scelta della facoltà, il motivo fu determinato dalla mia intenzione di subentrare nel tempo a mio padre come direttore del laboratorio. Per poterlo diventare occorreva essere laureato in medicina».
Quindi non ha mai pensato di fare il medico?
«No. Mi affascinava tutto ciò che è “vita” e il rapporto umano che si istaurava con i pazienti che venivano in laboratorio. Per mia fortuna, quando terminai il biennio, fu varata una legge che consentiva anche ai laureati in scienze biologiche di poter diventare direttori tecnici di laboratorio. Cambiai facoltà e mi iscrissi al corso di laurea in Scienze Biologiche e dopo quattro anni mi laureai».
Cominciò a frequentare il laboratorio di suo padre?
«Sì, ma contemporaneamente vinsi il concorso per accedere alla Scuola di Specializzazione in Patologia Clinica. Eravamo dieci biologi e otto medici. Dopo quattro anni mi specializzai e la mia vita cambiò radicalmente».
Perché?
«Fino al quarto anno di specializzazione vivevo una quotidianità da “giovin signore”. Poi la mia fidanzata rimase incinta del nostro primo figlio e ci sposammo. Contemporaneamente ebbi modo di dare spazio a una passione che covava in me da qualche anno e cioè quella della politica. Mi candidai nel Movimento Sociale come consigliere alla mia circoscrizione, oggi municipalità, e ottenni il maggior numero di preferenze diventando consigliere anziano e di conseguenza Presidente di circoscrizione. Infine ultimai la specializzazione e divenni “stabile” nel laboratorio che nel frattempo era stato trasferito in via Mariano Semmola, di fronte all’Istituto Pascale. Tutto il mio tempo era completamente assorbito dal lavoro, dalle responsabilità di marito e di padre, e dalla carica nell’amministrazione».
Di che cosa si occupava nella circoscrizione?
«Di sanità. Pur non avendo poteri decisionali perché la circoscrizione non ne aveva, interloquivo con l’assessore comunale e regionale di competenza facendo proposte che riguardavano il mio territorio al quale ero e sono profondamente legato. L’esperienza è durata cinque anni e mi ha lasciato un ottimo ricordo, ma mi resi conto che la politica della quotidianità non rientrava nelle mie corde perché non sempre si sposava con l’ideologia alla quale facevo riferimento».
Il lavoro come procedeva?
«Papà mi ha fatto fare una gavetta dura. Era un uomo di estremo rigore e con uno spiccato senso del dovere. Doti che ha trasmesso a me e a mia sorella maggiore, medico, che da trent’anni esercita negli Stati Uniti d’America. Ciononostante era sempre di ottimo umore e creava empatia con tutti. Ritengo che abbia sempre espresso nei suoi comportamenti autorevolezza e mai autorità. Gli sono profondamente grato e so che ha cominciato a darmi spazio quando è stato assolutamente sicuro che avevo raggiunto la maturità professionale che riteneva necessaria per prendere il suo posto».
Quando avvenne il passaggio del testimone?
«Acquisita l’abilitazione come biologo prelevatore, come previsto dalla legge, feci un corso di ematologia, branca della medicina che mi affascinava molto, all’università di Napoli. Perfezionai così il mio percorso di “formazione” professionale e, espletate le pratiche burocratiche, diventai il direttore del laboratorio a 33 anni. Mamma non collaborava più da tempo e papà nel 2001 si ammalò e morì. Per me fu un colpo molto duro. Passavo a prenderlo ogni mattina per andare al laboratorio e la sera tornavamo sempre insieme. Il primo giorno di apertura fu veramente di una tristezza incredibile. Un giorno un amico mi invitò a visitare un immobile all’interno del complesso residenziale. Ero restio ma alla fine cedetti alle sue insistenze. Era al piano terra in via Onofrio Fragnito ed era grande 180 mq. Quando lo vidi rimasi folgorato e mi configurai il laboratorio che avrei costituito. Lo inaugurammo nel 2005 e costituii una srl con mia madre e mia sorella alle quali in seguito sono subentrati i miei figli».
Che cosa cambiò dalla sede di via Mariano Semmola a quella di via Onofrio Fragnito?
«Innanzitutto l’organizzazione che prima era a conduzione familiare. Assunsi ulteriore personale tecnico e amministrativo e assegnai a ciascuno il proprio compito e la propria postazione di lavoro. Avviai una gestione basata sulla condivisione e sulla collaborazione datore di lavoro-dipendenti nel rispetto dei reciproci ruoli e responsabilità. Sono sempre stato convinto che il lavoro di squadra è fondamentale e che i collaboratori vanno incentivati anche con benefit. Aprii il settore di microbiologia e quello dell’immunoenzimatica proiettando il laboratorio in una dimensione di studio medico polidiagnostico e tecnologicamente all’avanguardia».
Nel 2009 creò poi il Gruppo Cardillo.
«Acquistai il laboratorio Alfa che si trovava poco distante, lo trasformai in centro prelievi dove si svolgeva l’attività preanalitica e la consegna dei referti e costituii il Gruppo Cardillo srl».
Nel 2020, poi, il grande salto. Che cosa fece?
«Formai un consorzio, l’Opus srl, con un amico e collega che aveva altri tre laboratori. La nostra competitività aumentò moltissimo. Cambiò sostanzialmente il rapporto contrattuale con i fornitori ottenendo prezzi più favorevoli negli acquisti di materiali e macchinari. Aumentarono sensibilmente la domanda di prestazioni e il numero di pazienti. Eravamo già noti, come Gruppo Cardillo, per l’alta professionalità e la qualità dei servizi resi; ora si aggiungeva a queste caratteristiche anche una maggiore velocità nel dare i risultati con ulteriore gradimento da parte del paziente, cosa questa che per me è di primaria importanza nel concetto che ho di sanità».
Cioè?
«La sanità, in tutte le sue declinazioni, deve fornire al paziente un servizio qualitativamente ai massimi livelli possibili, a prescindere se sia pubblica o privata. Nonostante io faccia parte del settore privato, mi dolgo quando il servizio pubblico non funziona come dovrebbe e mi sento ferito come contribuente, come biologo e come direttore di un centro polidiagnostico convenzionato. Il paziente non deve essere costretto a ricorrere alla struttura privata perché quella pubblica è inefficiente o mal funzionante, ma deve farlo per libera scelta. La qualità del servizio deve essere sempre garantita e ci dovrebbero essere altri motivi per cui ci si rivolge al settore privato come, ad esempio, l’accoglienza, l’empatia tra operatore e paziente, la brevità dei tempi di attesa per effettuare gli accertamenti e ottenere i risultati, la disponibilità dei responsabili a dare ascolto al paziente che chiede spiegazioni e consigli sugli esiti degli stessi, il comfort del centro diagnostico e così via».
Si sta “formando” la terza generazione. Da chi è composta?
«Dai miei primi due figli, Mauro è laureato in Scienze Biologiche e ha 27 anni, il secondo Mirko ha 24 anni, è laureato in “Genetics and Molecular Biology” ed è in attesa di iscriversi alla scuola di specializzazione sempre in genetica. Mi hanno impressionato per l’impegno, la passione e il senso di abnegazione che mettono in questo lavoro. Stanno facendo anche loro una dura gavetta spostandosi tra i due laboratori del Gruppo Cardillo e Bacoli, dove ha sede il consorzio e dove eseguiamo proprio genetica e biologia molecolare. La mia terza figlia, Maira, ha 23 anni e ha frequentato la “John Cabot University” a Roma. È stata due anni in Svizzera, sei mesi in Giappone, Corea del Sud, Taiwan. Sta facendo un master in “Human Rights” e parla sei lingue».
Come vede la situazione dei Laboratori oggi?
«Purtroppo non benissimo. Nel settore si sono affacciate nuove realtà fatte di fondi monetari ai quali interessa solo il mero profitto. Gli “italiani” sono rimasti in pochi. Resistiamo».
Le è rimasta qualche passione?
«Quella per i viaggi, ho girato mezzo mondo, e poi da un po’ mi sono appassionato alla maratona. Ho corso quella di 42 km e 195 metri e la mezza maratona di 21,0975 km. Ma quella che faccio normalmente è la 10 km».
Che cosa ispira e sottende il suo lavoro?
«Sono nato come azienda del territorio e mi considero una sua interfaccia. Desidero fortemente essere un riferimento per questa zona residenziale anche se vengono pazienti da ogni parte della città metropolitana. In questa ottica sono impegnato anche nel sociale. Sponsorizzo il cineforum e la polisportiva “Pro Cangiani” perché ritengo che l’associazione dia l’opportunità ai ragazzi di praticare vita attiva allontanandoli da possibili vizi».

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