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Budillon e la passione per l’oceanografia

«Il mio vero relax è “lavorare" ai fornelli la domenica»

Budillon e la passione per l’oceanografia

Giorgio Budillon

Professore Ordinario di Oceanografia, Meteorologia e Climatologia presso il Dipartimento di Scienze e Tecnologie dell’Università Parthenope, Giorgio Budillon è oceanografo sperimentale e ha svolto attività di ricerca, didattica e formazione in diversi Paesi. Ha un’attività scientifica documentata da oltre 500 pubblicazioni e ha ricoperto e ricopre ruoli a livello nazionale e internazionale.

«Nasco a Napoli e sono vomerese da sempre, seppure gran viaggiatore per lavoro e passione. Il mio percorso scolastico è stato molto diversificato. Da bambino ho frequentato una scuola privata, la Scuola Svizzera di via Manzoni, un ambiente straordinario e altamente stimolante, sia per la qualità dei compagni di studio sia per i metodi di insegnamento, all’avanguardia per l’epoca. Oltre alle materie tradizionali, il programma includeva lo studio delle lingue e discipline alternative, come applicazioni tecniche, musica e altre attività. Grande attenzione era riservata anche all’educazione fisica. Dopo la scuola media, nonostante fossi già iscritto al liceo scientifico, decisi all’ultimo momento di cambiare percorso e iscrivermi all’Istituto tecnico commerciale De Nicola al Vomero. Pensavo che, al termine dei cinque anni, avrei ottenuto un diploma che mi avrebbe permesso di lavorare con mio padre nella sua attività di import-export di pelli e lane. Sono stati anni piacevoli, ma poco produttivi dal punto di vista culturale, a causa di doppi turni, scioperi e occupazioni che limitavano lo studio al minimo indispensabile. Gli amici di scuola, comunque, sono rimasti importanti, anche se ormai ci vediamo raramente».

Praticava qualche sport?

«Nuoto e tennis durante l’infanzia; pallavolo con la Fides Vomero (Salesiani) da ragazzo, ottenendo anche buoni risultati. Naturalmente non mancavano le partite di calcio e calcetto con gli amici, oltre alle frequenti scorribande sulle piste da sci in Abruzzo, Dolomiti e Valle d’Aosta. Indimenticabili sono state le due esperienze nelle scuole di vela a Caprera, che hanno consolidato, se mai ce ne fosse stato bisogno, la mia passione per la vela e per il mare».

Dopo il diploma di ragioniere che cosa ha fatto?

«Ho lavorato per alcuni mesi in uno studio commercialista, ma presto ho capito che quella non era la strada per me e decisi di iscrivermi all’università. A quel punto i miei genitori furono molto chiari: mi esortarono a scegliere un corso di studi che mi appassionasse davvero, facendomi capire che, in caso di insuccesso, avrei iniziato a lavorare nell’azienda di mio padre».

Quindi?

«Proprio in quei giorni, leggendo un quotidiano, scoprii che a Napoli c’era l’Istituto universitario navale (oggi Parthenope), che offriva un corso in oceanografia. Sembrava un segno del destino: un corso così specifico (tuttora l’unico in Italia) a due passi da casa. Fu una svolta decisiva. Se al liceo seguivo le lezioni in modo passivo, senza grande interesse, all’università scoprii un mondo affascinante fatto di materie incredibili, insegnanti straordinari e il piacere autentico della conoscenza. Esami come Fisica, Analisi Matematica e Teoria dei Sistemi, seguiti da quelli più specifici come Meteorologia, Oceanografia, Oceanografia Costiera e Climatologia, mi aprirono orizzonti culturali che non avrei mai immaginato. In quegli anni eravamo pochi studenti e questo ci permise di partecipare attivamente alle attività di ricerca a bordo di navi oceanografiche. Per me, quello fu il vero punto di svolta: sentirmi coinvolto in prima persona nella ricerca».

Qual è stata la sua prima attività di ricerca da studente?

«L’ho fatta a bordo della nave Bannock del Cnr, nel Canale di Sicilia. Fu un sogno che si realizzava per me, che da ragazzo seguivo in televisione le avventure di Jacques-Yves Cousteau e della sua leggendaria Calypso, immaginando un giorno di poter solcare gli oceani».

Con quale argomento si è laureato?

«Con una tesi sul bradisismo flegreo. Durante il mio lavoro di ricerca, che consisteva nel misurare il livello del mare per monitorare le deformazioni nel Golfo di Pozzuoli, il professore che mi aveva seguito mi segnalò come possibile candidato per partecipare al Programma Nazionale di Ricerche in Antartide (Pnra), allora agli esordi. Quando lo seppi immaginai fosse uno scherzo, ma mi sbagliavo! Da quel momento, per me neolaureato alle prime esperienze, iniziò un vortice di emozioni. Fui convocato dall’Enea, l’ente che gestiva le attività logistiche del Pnra, per affrontare visite mediche e test attitudinali presso l’Aeronautica Militare di Roma. Successivamente, partecipai a una settimana di formazione presso il Centro di ricerca del Brasimone, in Emilia Romagna, dove seguii corsi di sopravvivenza, antincendio e pronto soccorso. L’addestramento proseguì sul Monte Bianco, con una settimana trascorsa sul ghiacciaio. Imparammo a guidare motoslitte, calarci nei crepacci, costruire rifugi di neve e camminare in cordata con ramponi e piccozze. Dormivamo in tende e il freddo di quelle notti fu qualcosa che non dimenticherò mai: neanche il gelo dell’Antartide è riuscito a superarlo!».

Chi è stato il suo maestro?

«Con il professor Lorenzo Mirabile, ordinario di Geofisica Marina, ho avuto l’opportunità di avvicinarmi al mondo della ricerca geofisica già da studente, negli anni successivi al bradisismo flegreo. Fu grazie a lui che iniziai a inserirmi nel Programma Nazionale di Ricerche in Antartide. Tuttavia, la mia vera passione, l’oceanografia, prese presto il sopravvento. Sotto la guida del professor Giancarlo Spezie, oggi professore emerito di Oceanografia, iniziò un sodalizio che sarebbe durato più di 25 anni. È stato con lui che ho mosso i primi veri passi nella ricerca e nella vita accademica. Un vero mentore e un esempio di vita, con il quale mi lega ancora oggi una sincera e affettuosa amicizia».

Dove ha fatto le sue prime esperienze lavorative?

«Nel dicembre del 1989, pochi mesi dopo la laurea, partii per la Nuova Zelanda per imbarcarmi sul rompighiaccio Cariboo, una nave di 60 metri con una quarantina di tecnici e ricercatori a bordo, per la mia prima spedizione in Antartide, nel Mare di Ross. In una settimana di navigazione attraversammo l’Oceano Meridionale fino alla cintura di ghiaccio che circonda l’Antartide, spingendoci sempre più a sud per raggiungere le aree di studio. A mano a mano che avanzavamo, il ghiaccio si faceva sempre più spesso, rallentando il nostro cammino, finché, dopo alcuni giorni, rimanemmo bloccati con un motore in avaria. Ci volle quasi una settimana per liberarci dai ghiacci e raggiungere la base italiana».

Che ricordo ha di quella spedizione?

«Fu un’esperienza incredibile, che ancora oggi mi emoziona: i primi avvistamenti del ghiaccio, degli iceberg, delle balene e dei pinguini resteranno per sempre impressi nella mia memoria. La spedizione durò oltre 90 giorni, e conservo ancora il diario in cui ho annotato emozioni e ricordi di quei momenti straordinari. L’anno successivo fui confermato per una nuova spedizione durante la quale, nel febbraio del 1991, ricevetti la notizia di aver vinto il concorso per tecnico laureato all’università. Due anni dopo ero ricercatore presso l’Istituto di Meteorologia e Oceanografia del Navale: fu l’inizio della mia carriera accademica».

Quali sviluppi ha avuto?

«Dal 2012 sono Professore Ordinario di Oceanografia, Meteorologia e Climatologia. Ho diretto il Dipartimento di Scienze e Tecnologie del mio Ateneo dal 2017 al 2022 e attualmente ricopro il ruolo di Prorettore alla Ricerca e ai Rapporti Istituzionali. Dal 2016, su nomina ministeriale, sono membro della Commissione Nazionale per le Ricerche in Antartide (dal 2020 vicepresidente), oltre a essere Vicepresidente del CoNISMa (Consorzio Nazionale Interuniversitario per le Scienze del Mare), che riunisce 36 atenei italiani attivi nel campo delle scienze marine. La mia carriera è arricchita da numerosi ruoli in organismi internazionali dedicati alla ricerca oceanografica, inclusa quella in ambito polare. Nonostante i ruoli “manageriali” che mi tengono lontano dalla ricerca sul campo, continuo a seguire con entusiasmo tesi di laurea e dottorato, un’attività che mi stimola a rimanere aggiornato e attivo nella ricerca. Coordino il gruppo di Oceanografia e Meteorologia del mio Ateneo, composto da due professori associati, tre ricercatori e un gruppo appassionato di assegnisti di ricerca e dottorandi».

È più propriamente un oceanografo sperimentale. Che cosa significa?

«Raccolgo dati direttamente sul campo, a bordo di navi da ricerca, e li elaboro per studiare i processi che trasformano l’oceano, con particolare attenzione alle interazioni tra variabilità climatica e sistema oceanico-atmosferico. Mi occupo anche di monitoraggio meteo-marino costiero, utilizzando tecniche di telerilevamento e strumenti “unmanned” (senza guida umana) che trasmettono i dati via satellite al nostro centro di ricerca».

Perché questa passione per lo studio dell’oceano?

«È cresciuta a 360° soprattutto per il ruolo cruciale che l’oceano riveste nei cambiamenti climatici. L’insieme delle vaste distese d’acqua salata presenti sul nostro pianeta è attraversato da grandi fiumi di acqua, le correnti marine, che si muovono dalla superficie fino agli abissi come un sistema circolatorio globale. Trasportano calore verso le regioni polari e ridistribuiscono il freddo verso le zone tropicali, contribuendo a mantenere l’equilibrio climatico della Terra. Il mio lavoro si concentra nel monitorare le aree dove questi processi avvengono, per evidenziare le anomalie legate ai cambiamenti climatici».

Quanto tempo ha trascorso finora nei mari polari?

«In totale più di due anni e mezzo. Tuttavia, la mia esperienza non si limita all’Antartide: ho partecipato a spedizioni nel Mar Mediterraneo, nello Stretto di Magellano, nel Mare del Nord e persino alle Galápagos. Gli anni trascorsi sulle navi oceanografiche sono stati intensi e si lavora 24 ore su 24, in turni di 12 ore. Ogni minuto è prezioso, considerando i costi elevati di gestione».

Che cosa rappresenta per lei essere oceanografo?

«La quadratura del cerchio: unisce la mia passione per il mare, l’esplorazione e lo studio della natura in tutte le sue meravigliose complessità. Anche per questo sono fortemente impegnato nella diffusione e divulgazione scientifica, un aspetto del mio lavoro che continuo ad amare profondamente».

Nel tempo libero ha qualche interesse particolare?

«Da ragazzo coltivavo con grande passione il modellismo ferroviario, la fotografia in bianco e nero, e l’archeologia. Con il passare del tempo, la famiglia e il lavoro hanno preso il sopravvento. Sono sposato con Chiara, conosciuta nelle aule universitarie, insegna Matematica e Fisica al liceo. Abbiamo due figli: Alberto di 30 anni medico specializzato in Genetica e Fulvia che sta concludendo il dottorato in Development a San Diego, in California. Alcune passioni, comunque, sono rimaste immutate: il mare, la vela, la pesca e la subacquea. Il vero relax, però, è in cucina, specialmente la domenica, quando mi occupo personalmente del menù di mare: dall’antipasto al secondo piatto. Acquisto, preparo e cucino frutti di mare e pesce, trasformando ogni pasto in un momento di convivialità. Inoltre, in casa mi diletto nella produzione di limoncello con i limoni del mio giardino, nocillo con noci che mi vengono regalate, e persino birra artigianale!».

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