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I PERSONAGGI
03 Febbraio 2025 - 18:02
Sergio Cocozza
Il professore Sergio Cocozza è laureato con il massimo dei voti in medicina e chirurgia presso l’Università Federico II. Nel 1981 ha cominciato a frequentare i laboratori del Dipartimento di Biologia e Patologia Cellulare e Molecolare “L.Califano” dello stesso ateneo come vincitore di un concorso per un assegno di formazione del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Nel 1990 vince il concorso come tecnologo del Cnr presso il Centro di Endocrinologia ed Oncologia Sperimentale del Cnr, afferente al Dipartimento universitario prima citato. Nel 1995 è risultato vincitore di un concorso per ricercatore universitario presso il Dipartimento di Biologia e Patologia Cellulare, ruolo che ha svolto fino al 1998. Dal 1998 al 2003 ha svolto il ruolo di professore associato di Patologia Generale. Dal 2003 è stato chiamato a svolgere il ruolo di professore di I fascia di Genetica Medica sempre presso l’Università “Federico II” di Napoli. Ha svolto attività didattica in numerosi corsi della Facoltà di Medicina e di Biotecnologie. In particolare ha avuto compiti di didattica nel corso di Genetica Umana e Medica e di Patologia Generale del corso di Laurea in Medicina e Chirurgia, nel corso di laurea in Biotecnologie ed in diversi corsi di laurea in Professioni Sanitarie. Ha coordinato il Dottorato di Ricerca in Biologia Computazionale e Bioinformatica.
«Nasco nel 1953 a Portici, in una famiglia modesta. Entrambi i miei genitori, per necessità economiche, dovettero interrompere gli studi dopo il diploma. Mio padre era un impiegato statale di gruppo B. Per chi non lo ricordasse, l’impiegato di gruppo B, negli anni ’50, pur rappresentando la vera “spina dorsale” della pubblica amministrazione, non godeva dei privilegi, anche economici, dei livelli superiori. Erano altri tempi, e quella piccola (davvero piccola) borghesia di allora, per dignità, non avrebbe mai esposto pubblicamente le proprie difficoltà economiche, con la conseguenza di rimanere schiacciata tra avere pochi soldi e la necessità di mantenere un livello di vita borghese decoroso. La mia famiglia era una famiglia felice, essendo stata in grado di trasformare l’uso oculato delle risorse da una necessità in una virtù, costruendosi uno stile di vita sereno ma austero. Infatti, l’unica soluzione possibile per far quadrare il cerchio era risparmiare, ma sempre senza darlo a vedere, sommessamente, quasi di nascosto. E si risparmiava un po’ su tutto tranne che su una cosa: i libri. Mio padre è stato, fino che ha potuto, un accanito lettore. In particolare, era fatalmente attratto dai dizionari e dalle enciclopedie. Ne aveva di ogni tipo e specie. Ancora conservo una sua “Enciclopedia Pratica Bompiani” del 1948: una vera chicca. Quando negli anni ’60 si diffuse la moda delle enciclopedie a fascicoli, si abbonò a due pubblicazioni dei Fratelli Fabbri Editori: una era l’enciclopedia “Conoscere”, di carattere scientifico generale e l’altra era “Guida Medica”, che copriva invece, in maniera accessibile, una vasta gamma di argomenti medici. Ricordo con che fierezza, a fine raccolta, guardava i volumi in bella mostra nella libreria del salotto e con quanta attenzione e impegno li leggeva, quasi fossero romanzi».
Lo stile di vita della sua famiglia è stato fondamentale nella sua formazione.
«La provincia e le ristrettezze economiche ti mettono dentro da subito la voglia di crescere e di migliorare. Intanto la fame di cultura che percepisci intorno a te, t’induce a vedere lo studio non come una condanna biblica ma come un piacere».
Dove ha studiato?
«Dopo un paio di anni di elementari alle “Piccole ancelle di Cristo Re” di Portici, ci trasferimmo a Napoli, anzi al Vomero. La precisazione è dovuta perché i vomeresi si sono sempre sentiti una enclave a parte e non vorrei offenderli. “Giù Napoli” (cioè il resto della città) per un vomerese è un posto che oscilla tra l’inutile e il pericoloso. E così anche io divenni “vomerese” e forse lo sono rimasto ancora un po’, sebbene da molti anni non ci viva più».
Alle superiori optò per il classico, perché?
«Non credo di aver scelto io. Mi sono ritrovato al liceo classico “Sannazaro” quasi senza accorgermene, forse perché c’era già stato mio fratello o forse perché, come si diceva allora, era il liceo più “formativo”. Ebbi un corpo insegnante da brividi. Come scordare i virtuosismi filologici del prof di latino e greco De Cristoforo, che dava agli allievi strettamente del “lei” e che, per tradurre dal greco, ci faceva usare un dizionario in greco antico. E ancora, come dimenticare il prof di storia e filosofia Nicolini, figlio di don Fausto (l’amico di Croce) e la sua bizzarra abitudine di ospitare le classi nella sua aula personale, tanto temeva gli spifferi e il freddo dei corridoi. Un corpo insegnante di livello culturale incredibile al cui appassionato insegnamento devo gran parte del mio amore per i classici».
La scelta della facoltà universitaria fu sua?
«A dire la verità, fino al giorno prima ero indeciso tra iscrivermi a Chimica o a Medicina (a volte penso che in realtà ero indeciso tra “Conoscere” e “Guida Medica”). Alla fine mi iscrissi a Medicina e dei sei anni di corso ricordo poco. Solo una lunga, interminabile corsa fatta di aule strapiene e di smisurati sforzi mnemonici su costosi libroni di migliaia di pagine che, manco a dirlo, i miei genitori mi compravano senza battere ciglio. Alla fine del corso mi innamorai della chirurgia. La vedevo pratica, concreta, in grado davvero di risolvere problemi, così vicina com’era alla carnale sofferenza della gente».
Poi cambiò orientamento. Per quale motivo?
«Dopo il militare arrivò l’illuminazione. La chirurgia mi piaceva ancora tanto ma sentivo il bisogno di stimoli intellettuali che lei non mi sapeva dare. Partecipai ad un concorso per una borsa di studio del Cnr e la vinsi. Capii di averla vinta nel giorno stesso della prova, perché mi accorsi che in aula c’erano meno concorrenti dei posti messi a bando. L’arcano non era difficile da comprendere e lo capii perfettamente alla prima busta paga. Il contratto era semestrale (rinnovabile) e mi pagavano ben 250mile lire (lorde s’intende) al mese (pari agli attuali 600 euro). Rimasi così in attesa di qualche concorso che mi desse stabilità e la possibilità di andare a vivere da solo».
Questo quando accadde?
«Dopo dieci anni il “posto fisso” arrivò e da lì una carriera universitaria che mi ha portato a occupare, non so se più per merito o fortuna, il ruolo di professore ordinario di Genetica Medica presso l’Università Federico II di Napoli».
Di che cosa si occupa la genetica medica?
«Il suo obiettivo quello di analizzare ed individuare le malattiche genetiche. Un esperto in genetica medica si occupa principalmente di eseguire diagnosi cliniche e consulenze genetiche al fine di valutare un eventuale rischio riproduttivo per il paziente e la sua famiglia. Inoltre, il ruolo di un genetista è anche quello di aiutare a prevenire patologie cardiovascolari o neoplastiche. Può prescrivere test diagnostici (inclusi quelli da eseguire in gravidanza) e collaborare con altri specialisti per valutare il rischio e l’importanza effettiva dei fattori ereditari».
Durante la sua carriera quali aspetti della genetica ha studiato particolarmente?
«Il principale è stato quello legato alle basi molecolari di alcune malattie neurologiche. In altre parole, il mio lavoro consisteva nel cercare di capire perché ci si ammalasse di una certa malattia genetica e questo al fine di trovarne il possibile rimedio. Ci chiamavano “Disease Hunters”, cacciatori di malattie, e questa definizione a me giovane ricercatore piaceva molto. Faceva tanto Indiana Jones e verniciava di una patina eroica il mio lavoro che eroico invece non era affatto. La gente immagina gli scienziati come personaggi un po’ bizzarri e con la testa tra le nuvole, intenti a gridare ad ogni piè sospinto “Eureka!”. In realtà il lavoro di ricerca è ben diverso. Si sta chiusi per tutta la giornata (e a volte anche la notte) in un posto brutto e puzzolente (i laboratori di ricerca non li mettono in genere nelle stanze di una reggia). Si passa la giornata o con delle provette in mano o davanti allo schermo di un computer. Insomma, non proprio una vita eroica. Più che Indiana Jones, uno scienziato assomiglia ad un topo da laboratorio. Ma persino in quel posto così brutto si possono trovare cose molto belle. Io ci ho trovato, ad esempio, la moglie, ricercatrice anche lei, con cui ho condiviso felicemente il lavoro e la vita».
Che cosa la teneva avvinta a una vita del genere?
«Il piacere mentale di affrontare ogni minuto una nuova sfida intellettuale. Ogni minuto ti ritrovi ad esplorare un mondo oscuro e misterioso cercando di capirci qualcosa; altro che videogiochi. Nel caso della ricerca biomedica, si aggiunge poi anche un’altra forte spinta emotiva: quella della speranza. Speri che il lavoro che stai facendo possa essere utile a qualcuno meno fortunato di te».
Nel suo caso quali erano questi “meno fortunati”?
«Gli ammalati di Atassia di Friedreich, una malattia genetica neurologica che porta tanti ragazzi su una sedia a rotelle. Per quasi venti anni ho cercato (ovviamente insieme ad altri ricercatori) la causa di questa malattia». L’ha trovata? «Alla fine l’abbiamo trovata. Devo confessare che solo quando vidi la notizia riportata dai maggiori quotidiani del mondo (compreso il New York Times) mi accorsi della fortuna che avevo avuto nel fare questa scoperta. Essa creava il presupposto indispensabile per una possibile cura che ancora non c’è ma ci sarà, ne sono certo. Io, per adesso, sono in panchina (all’Università la chiamano quiescenza) ma altri stanno continuando questo lavoro».
Si è definito una persona fortunata. Perché?
«Innnazitutto per essere cresciuto in una famiglia felice; poi l’eccezionale corpo docenti del Sannazaro; quindi il lavoro di ricercatore e l’incontro con mia moglie; infine, l’avere insegnato per quasi quaranta anni Genetica nella Facoltà di Medicina».
Cosa ha significato per lei essere e fare il docente?
«L’insegnamento è una specie di panacea. Innanzitutto è un anti-aging. Chi vive tutti i giorni insieme ai giovani non può invecchiare; gli è fisicamente impedito. La gioventù è contagiosa, come l’influenza. Ma la cosa principale è che impari a fare e a farti domande.Nessuno più di un giovane è bravo nel fare domande e da loro impari tanto. Il beneficio che ne trai è grandissimo perché, come è noto, nella vita non contano le risposte ma solo le domande. Chissà se i miei studenti avranno mai capito che non sono stato io a far crescere loro ma, al contrario, sono stati loro a migliorare me».
Una costante della sua vita è stata fare sport. Quando ha iniziato?
«Ho cominciato con il nuoto da bambino e, più avanti, mi sono dedicato al taekwondo. Tuttavia, la mia vera grande passione è stata l’equitazione, un amore trasmesso da mia moglie con cui ho condiviso questa attività per oltre vent’anni. Sebbene l’equitazione possa risultare limitata dal punto di vista agonistico, poiché il livello competitivo è fortemente influenzato dalla qualità e dal costo del cavallo, resta una disciplina straordinaria. Il suo pregio più grande risiede nel legame che si instaura con il cavallo, un animale di grande potenza e straordinaria sensibilità. Oggi sono tornato al nuoto, e qualcuno penserà ad un’ulteriore dimostrazione empirica della teoria dei corsi e ricorsi di Giambattista Vico. Io parlerei piuttosto della fortuna di un anziano che torna a fare cose che faceva da bambino».
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