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il personaggio
17 Luglio 2025 - 12:20
Antonio Moccia (nella foto) è Professore Emerito dell’Università di Napoli Federico II. È stato professore di Sistemi Aerospaziali presso l’Ateneo federiciano. I suoi interessi di ricerca sono l’analisi di missione e la progettazione di sistemi e sensori di telerilevamento e le metodologie e la strumentazione per la dinamica, la guida, la navigazione e il controllo dei sistemi aeronautici e spaziali. Ha ricoperto il ruolo di principal investigator in numerosi progetti competitivi di ricerca ed è presente nel top 2% del career-long ranking degli autori di articoli scientifici di maggiore impatto nella letteratura internazionale per il settore Aerospace & Aeronautics, ranking pubblicato annualmente dalla Stanford University e da PLOS a partire dal 2021. È stato Presidente di Corsi di Studio e Coordinatore di Corso di Dottorato nell’area Ingegneria Aerospaziale, Direttore del Dipartimento di Ingegneria Industriale e Presidente della Scuola Politecnica e delle Scienze di Base, sempre alla Federico II.
«Nasco a Napoli in via Chiaia. Mamma mi diede alla luce in casa, come era in uso a quei tempi. Dopo il matrimonio con Maria Carmen Palumbo mi traferii in collina, al Vomero, in via Luigia Sanfelice, la “Santarella” dove nacquero i nostri figli Marcello e Isabella, oggi, il primo, neurologo alla Federico II, la seconda docente di matematica e fisica al liceo classico Genovesi. Maria Carmen è nata il giorno della storica nevicata del 1956. Durante il fidanzamento, nel corso delle prime passeggiate per via Scarlatti, mi diceva che i suoi genitori le avevano descritto quello scenario surreale e raccontato che giovani temerari, inforcati gli sci (allora erano di legno) si lanciavano giù per quella strada in discese velocissime e anche pericolose, come se fosse una pista di una località sciistica, mentre i bambini, fatti uscire dalle scuole, si divertivano a “battagliare”con le palle di neve. Di quell’evento straordinario io, nonostante fossi molto piccolo, ho impresso nella mente l’immagine del balcone di casa, di solito assolato, completamente imbiancato dalla neve».
Dove ha studiato?
«Ho fatto le elementari a via Santa Teresa a Chiaia, le medie alla Tito Livio-Fiorelli, a Largo Ferrantina e il liceo scientifico al Mercalli, in via Andrea D’Isernia».
Perché lo scientifico e non il classico?
«Ho avuto sempre una predisposizione per le materie scientifiche, la matematica in particolare, e perciò consideravo quell’indirizzo più in linea con il mio carattere meno speculativo e più pragmatico».
Allo studio affiancava qualche attività sportiva?
«Da piccolo ho fatto corsi di nuoto organizzati dal CONI-FIN nella micropiscina che era nella Mostra d’Oltremare (oggi l’edificio è diventato un centro congressi). Durante il liceo ho imparato a giocare a tennis, ma mi è sempre piaciuto il calcio che ho praticato con sano agonismo. Secondo me è una scuola di vita perché insegna a stringere i denti e lavorare in gruppo verso un obiettivo. Purtroppo, l’università e poi il lavoro mi hanno impegnato a tempo pieno e per molti anni ho rallentato la pratica sportiva. In età relativamente avanzata mi sono avvicinato alla vela, uno sport che mi aveva sempre affascinato per il rapporto con l’ambiente meteomarino e per la base teorica che richiede».
È una disciplina particolarmente difficile?
«Andare a vela offre una grande sensazione di libertà ma richiede anche molta concentrazione e capacità di contemperare aspetti diversissimi. In una parola richiede equilibrio, sia fisico che mentale. Sono stato, e rimango ancora, sempre un dilettante, anche se molto volenteroso. Non gioco più a calcio e a tennis, continuo ad andare a vela e a nuotare».
Dopo la licenza liceale la scelta, non sempre facile, della facoltà universitaria. Qual è stata la sua?
«Ingegneria aeronautica».
Perché proprio questa che sicuramente prevedeva un corso di laurea particolarmente difficile e con materie di studio relativamente nuove?
«È vero. Le sue origini risalgono in studi di Leonardo Da Vinci ma ha iniziato a svilupparsi come disciplina scientifica e pratica nel 1782 con il primo volo della mongolfiera. Il primo aereo, il Flyer I dei fratelli Wright, è stato poi realizzato nel 1903. Solo nel 1926 fu istituita a Roma e poi a Napoli la Scuola di Ingegneria Aeronautica che, in seguito, si è trasformata in Ingegneria Aerospaziale».
Quindi, che cosa determinò la sua decisione?
«Quelli della mia età ricorderanno la missione Apollo 11 della NASA che portò per la prima volta gli uomini sulla luna il 20 luglio 1969. Nella casa al mare, in cui ero in vacanza in quei giorni con la mia famiglia, non c’era la televisione. A quei tempi era poco diffusa e, in generale, le telecomunicazioni erano molto primordiali rispetto a oggi. Con un gruppo di amici ci radunammo a casa di uno di noi, l’unico che l’aveva, e seguimmo l’evento. Era trasmesso in un bianco/nero anche piuttosto sbiadito e sfocato, e durò tutta la notte. Anche fare la nottata fuori casa allora non era una cosa frequente per un ragazzo e mi richiese un certo “combattimento” con i miei. Quando rientrai di buon mattino, gasatissimo, venni accolto con sguardi di grande biasimo. Ricordo come fosse ieri che mia nonna, che era in vacanza con noi, disse testualmente: “con tutti i problemi che assillano il mondo, era proprio inutile spendere tanti soldi per andare sulla luna. Per fare che cosa, poi?”.Tralascio i sui commenti sulla notte che avevo trascorso avanti alla televisione».
Lei, però, la pensava in maniera molto diversa.
«Quella notte feci un’esperienza straordinaria che segnò il mio futuro. Decisi che dopo il liceo avrei voluto studiare all’università materie scientifiche collegate all’aerospazio. Non avevo ben chiaro se per diventare astronauta, ingegnere, astronomo, o altro, ma la cosa sicura era che dovevo confutare l’affermazione della nonna».
Fu, quindi, una decisione di “pancia” determinata da una reazione d’orgoglio e dimostrare a sua nonna aveva detto una cosa sbagliata?
«A caldo sì, ma quando nel 1971 mi iscrissi al corso di laurea in Ingegneria Aeronautica all’Università di Napoli, poco dopo diventata Federico II, frequentando i corsi, capii che avevo fatto la scelta giusta».
Soffermiamoci proprio sui corsi e sullo sviluppo del suo percorso universitario. Com’è andata?
«Mi è occorsa tanta volontà e altrettanto impegno, ma mi sono sentito molto gratificato. Gli studi al liceo, affrontati sempre con serietà, mi avevano abituato a procedere con continuità e disciplina fornendomi un metodo che è stato fondamentale nel contesto universitario. Questo, infatti, lascia allo studente la massima libertà di autogestire i propri tempi senza l’assillo della “scadenza”, ipoteticamente, giornaliera dell’interrogazione. Essere autonomi, però, è un’arma a doppio taglio perché si corre il rischio di lasciarsi andare e di ridursi all’ultimo momento per studiare. In questo caso si arriverà alla prova stanchi, non sufficientemente preparati e con un’ansia che peggiorerà le cosa. Studiare con metodo e programmazione giornaliera consente, invece, il massimo apprendimento, e quasi sempre si ottiene un buon voto all’esame, il che fa anche aumentare l’autostima».
Con quale tesi si è laureato?
«Con uno studio sul trattamento dei dati raccolti dai satelliti artificiali per applicazioni di monitoraggio della superficie terrestre. Era una tesi sperimentale perché rappresentava un lavoro accademico completamente originale volto a raccogliere dati ed informazioni nuove e sicuramente innovative».
Possiamo dire che la tesi è stata per lei un importante viatico per la carriera universitaria e un trampolino di lancio per il dottorato?
«Sicuramente. Da giovane neolaureato ho vinto una borsa di studio per proseguire nell’area di ricerca della tesi e, dopo molti anni di precariato (esattamente come avviene oggi, è un classico dell’università), sono diventato ricercatore e poi anche professore nel campo dei sistemi aerospaziali. Ho potuto lavorare su diversi programmi di ricerca internazionali che mi hanno permesso, oltre che di fare carriera, di rassicurami sul fatto che l’esplorazione dello spazio ha grandissime ricadute positive».
Quali?
«Non si tratta di soldi spesi inutilmente, ma di investimenti utili sia per le applicazioni delle missioni spaziali nella vita di tutti i giorni (meteorologia, vulcanologia, controllo dell’inquinamento, gestione del territorio, telecomunicazioni, navigazione, ecc.) sia per l’utilizzo delle tecnologie, dei sistemi e dei materiali spaziali in settori diversissimi (protesi dentali e ossee, attrezzature sportive come sci e racchette da tennis, pentole in teflon, analisi di immagini per applicazioni biomediche Perfino i pannolini per bambini sono stati inventati per essere usati dagli astronauti in giro fuori dai satelliti)».
Chi considera il suo maestro?
«Penso di dovere molto, innanzitutto, alla mia professoressa d’italiano del liceo, Giuseppina Senatore, che ho avuto dal secondo anno alla maturità. È lei che mi ha insegnato a studiare, a leggere, approfondire ed estrarre le informazioni essenziali da un testo scritto e ragionare con la propria testa. Abilità che poi mi sono servite per tutta la vita nel mio lavoro di ricercatore ma, ritengo, anche per diventare un cittadino responsabile. All’università ho avuto, poi, tanti maestri, ciascuno con qualità e competenze specifiche, e, diciamo la verità, anche con personalità abbastanza peculiari. Siccome si corre sempre il rischio di dimenticare qualcuno citerò solo i capiscuola. In primis il generale Umberto Nobile, professore, costruttore di aeromobili ed esploratore polare che fondò la Scuola di Ingegneria Aeronautica a Napoli nel 1926 e i suoi due allievi, Luigi G. Napolitano e Luigi Pascale, che hanno poi curato la maturazione del percorso degli studi, portandolo a un livello di grande qualità e che ho avuto la fortuna e il privilegio di avere come docenti».
Come valuta il settore ingegneria aerospaziale della Federico II?
«Da svariati anni occupa posizioni di rilievo nelle sempre più numerose “classifiche” delle università internazionali che confrontano la qualità della ricerca scientifica, le ricadute occupazionali dei laureati, la competenza dei docenti. Devo dire, e questo è uno degli aspetti straordinari del lavoro universitario, che anche i giovani con il loro entusiasmo e con la loro curiosità in qualche modo fanno da maestri, nel senso che gli studenti e le studentesse in gamba spingono i docenti ad approfondire e a migliorarsi sempre. Di fatto contribuiscono in maniera significativa alla qualità dell’insegnamento universitario e all’attrattività del corso di studi in ingegneria aerospaziale della Federico II. Nel corso degli anni, quando da coordinatore del corso di studi ho avuto il compito di accogliere le “matricole” di ingegneria aerospaziale, ho sempre raccomandato di non lasciarsi prendere dalla piacevole ma ingannevole sensazione di non avere compiti a casa e di non prolungare troppo le vacanze estive».
Dal primo novembre 2023 è in pensione. Un bilancio sulla sua carriera accademica?
«La stima e la fiducia dei colleghi mi hanno permesso di occupare ruoli importanti nella Federico II. Sono stato coordinatore di corsi di studio e di dottorato in ingegneria aerospaziale, direttore di dipartimento, presidente di scuola. Grazie al regolamento universitario che lo consente, continuo a tenere un corso e collaboro con i colleghi al completamento di alcuni progetti di ricerca che avevo iniziato nel periodo in servizio».
È Professore Emerito dell’Università degli Studi di Napoli Federico II. Che significa per lei questo riconoscimento?
«È motivo di grande orgoglio e gratificazione. Questo titolo mi è stato attribuito nel 2024 dal Ministro per l’Università e la Ricerca Scientifica su proposta dei colleghi di Dipartimento».
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