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Matteo d’Alessio, chirurgo plastico per vocazione

«Il rispetto del codice deontologico è imprescindibile»

Matteo d’Alessio, chirurgo plastico per vocazione

Matteo d’Alessio (nella foto) è laureato in medicina e chirurgia e specializzato in chirurgia plastica ricostruttiva ed estetica. Svolge l’attivita di libero professionista e ha lo studio insieme a suo padre Roberto.
«Nasco ad Avellino per caso perché il ginecologo di mia madre, il professore Malzoni, in quei giorni si trovava in una clinica irpina. La mia famiglia è napoletana da sempre e, in particolare, posillipina. Ho frequenato le scuole elementari e le medie alla “Marechiaro” nella omonima discesa. Dopo la licenza decisi di iscrivermi al liceo scientifico perché non ero molto attratto dalle materie umanistiche. Ho svolto i primi tre anni al liceo scientifico statale “Tito Lucrezio Caro”, in via Manzoni, e gli ultimi due alla succursale del “Mercalli”».
Praticava qualche attività sportiva?
«Fin da piccolo ho amato il calcio e a 6/7 anni ho cominciato alla scuola calcio Posillipo e successivamente alla Dinamo Promotion. Da bambino mi ispiravo a Roberto Baggio successivamente, quando assunsi il ruolo di regista, a Del Piero e a De Rossi. Ho giocato con continuità fino a 17 anni».
Dopo la licenza liceale decise di iscriversi a medicina. Perché?
«Da sempre avevo immaginato il mio futuro professionale come chirurgo plastico. Sono la terza generazione di chirurghi plastici e credo che sia l’unico caso attualmente registrato in Europa. Lo è stato mio nonno e lo è mio padre Roberto. Di recente è andato in pensione come Direttore dell’U.O.S.C. Centro Grandi Ustioni e Chirurgia Plastica Ricostruttiva dell’ospedale Cardarelli di Napoli e svolge tutt’ora attività privata. Questa situazione però non ha condizionato la mia scelta, almeno a livello di consapevolezza».
Quale università ha frequentato?
«Superai i test di ingresso per l’università dell’Aquila e mi trasferii nel capoluogo abbruzzese».
Ebbe difficoltà ad inserirsi in un contesto nuovo e diverso da quello in cui era vissuto fino ad allora?
«Superati i primi momenti in cui normalmente uno studente fuori sede si sente un po’ disorientato, riuscii ad inserirmi perfettamente grazie anche all’ambiente universitario che era molto accogliente e facilitava le amicizie. Tutt’ora intrattengo ottimi rapporti con alcuni colleghi».
Al di là dell’aspetto “cameratesco” che cosa ha rappresentato per lei quell’esperienza?
«È stata molto formativa perché mi ha consentito di affrontare da solo situazioni anche difficili dovute soprattutto a momenti di solitudine, facilitando il mio passaggio dalla fase adolescenziale a quella di giovane adulto».
Nel suo percorso universitario ha vinto anche una borsa di studio Erasmus.
«Come è noto questa “borsa” offre un sostegno finanziario per periodi di studio o tirocinio all’estero presso istituzioni accademiche europee. Io sono stato a Madrid, all’Ospedale Universitario La Paz. In quell’occasione conobbi il dottor Matias Mayor Arenal, specialista in dermatologia medico chirurgica e venereologia. Un vero luminare che mi fece letteralmente innamorare della sua specialità. I suoi insegnamenti caratterizzati da alta professionalità e competenza, al momento della scelta della scuola di specializzazione alla quale iscrivermi dopo la laurea, mi crearono qualche incertezza».
Finito l’Erasmus rientrò all’Aquila e, ultimati gli esami rimasti, si laureò. Con quale tesi?
«In chirurgia plastica ricostruttiva ed estetica sulle ustioni».
Quindi la scuola di specializzazione.
«Superai la “fascinazione” madrilena per la dermatologia e mi iscrissi alla scuola di specializzazione in Chirurgia Plastica, Ricostruttiva ed Estetica all’Università Luigi Vanvitelli. Volevo rimanere a Napoli perchè c’erano, come permangono, profondi legami affettivi non solo familiari».
Quando ha cominciato a fare pratica?
«Papà lavorava ancora al Cardarelli e svolgeva già la libera professione per cui per me il “battesimo” avvenne ancor prima di laurearmi. Quando dall’Aquila rientravo a Napoli il passaggio obbligato era lo studio di papà. Conseguentemente la pratica era assidua. Ricordo che da giovane universitario durante l’estate le mie visite al reparto diretto da mio padre erano molto frequenti».
Quando è entrato per la prima volta in sala operatoria?
«Assistetti un collaboratore di mio padre in occasione di un intervento su un paziente con gravi ustioni alle gambe. Certamente l’impatto con quella vista non fu dei migliori ma mi rafforzò molto anche sotto l’aspetto emotivo e psicologico. Gli mantenevo le gambe mentre l’operatore effettuava l’escarectomia che è l’intervento chirurgico che consiste nella rimozione del tessuto necrotico, chiamato escara, da una ferita o lesione. Il bisturi lo impugnai la prima volta su un mio carissimo amico che si era rivolto a mio padre per farsi asportare una cisti da un fianco. Papà fece fare a me l’intervento! La mano non tremò e tutto andò bene».
Durante la scuola di specializzazione ha fatto un’esperienza molto importante all’estero. Ce ne parla?
«Andai per un anno al Bellvitge University Hospital di Barcellona. È un ospedale pubblico situato nella città di l’Hospitalet de Llobregat, con attività di cura, insegnamento e ricerca. È specializzato in cure mediche ad alta complessità».
Per quanto concerne la chirurgia plastica in che cosa si caratterizza?
«Il Dipartimento di chirurgia plastica e ricostruttiva si occupa di tutto tranne le ustioni, la chirurgia della mano e la chirurgia pediatrica».
Quest’ospedale ha una caratteristica particolare che in Italia, purtroppo, si configura come un’utopia. Qual è?
«Al termine del periodo di formazione si è assunti per chiamata diretta. In Italia, dopo la specializzazione, c’è il “vuoto”. Eppure lo specializzando percepisce una retribuzione anche se minima per cui lo Stato investe senza però garantirsi un “rientro”. Ritengo che questo non abbia senso. Si pensi che con me si sono specializzati altri cinque colleghi e contemporaneamente alla Federico II altri cinque, per un totale di undici specializzati. Sono stati formati quindi undici chirurghi plastici che poi sono stati abbandonati a se stessi. A questi vanno aggiunti quelli degli anni successivi. Ottenuta la specializzazione che cosa resta da fare ai più se non la libera professione?».
È quello che ha fatto lei.
«È vero, ma la mia scelta è stata motivata dal fatto che ho alle spalle un’attività paterna di livello e ho potuto aggiungere anche il mio nome a quello di papà come titolare dello studio. Questa straordinaria condizione mi ha consentito anche di rinunciare a rimanre al Bellvitge University Hospital di Barcellona dove mi avevano offerto l’assunzione a tempo indeterminato nel dipartimento di chirirgia plastica. Mi considero un privilegiato. Ma gli altri colleghi?».

Quali sono i suoi interessi al di fuori del lavoro?
«Condivido con la mia compagna la passione per i viaggi. E continuo a giocare a pallone facendo partite di calcetto con gli amici».

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