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24 Ottobre 2022 - 20:03
Settant’anni fa, precisamente nel 1952, uscì nelle sale “Totò a colori”, il primo lungometraggio italiano a colori. «La Ferrania cominciava a fare la pellicola a colori – come ricordò il direttore della fotografia Tonino Delli Colli in un’intervista – nessuno ci credeva, nessuno si capacitava che sarebbe venuta fuori […] Mi fecero restare a Roma proprio per questo avvenimento del colore, proprio per il primo film italiano a colori, con Totò protagonista […] Questi colori ebbero un ruolo fondamentale nella costruzione di un’atmosfera quasi surreale, più conforme al varietà che al cinema».
Sceneggiato da Steno, Mario Monicelli, Age e Scarpelli, il film raccontava il viaggio del musicista Antonio Scanagatti a Milano, dall’editore Tiscordi, un viaggio disseminato di episodi celebri (la Capri degli esistenzialisti, il wagon-lit con l’onorevole Trombetta), per chiudere su alcune delle esibizioni più alte dell’arte del comico napoletano. Benché la regia fosse di Stefano Vanzina, in arte Steno, fu proprio quest’ultimo a dichiarare – molti anni dopo – che il vero regista era stato Totò: in fondo si trattava di un’antologia dei suoi sketches teatrali, tratti dalle riviste di Michele Galdieri e testi anche dello stesso De Curtis.
Giudicato poco meno che un’infamia dai critici dell’epoca, il film è diventato con gli anni uno dei pochi cult-movie del cinema italiano. Infatti, molte scene e scenette, dai sapori surreali, sono rimaste celebri: dal vagone letto agli snob di Capri, dall’eccezionale Pinocchio al gran finale del direttore d’orchestra. Tra tutti gli sketches il più famoso in assoluto è quello del “wagon-lit”, liberamente tratto dalla rivista di Michele Galdieri “C’era una volta il mondo” (stagione 1947/1948). Lo sketch si rifaceva alla nota farsa napoletana “La camera affittata a tre”, in cui i tre clienti si disputavano l’unico letto libero dell’albergo; qui i letti della cabina ferroviaria erano prenotati dall’onorevole Trombetta (Mario Castellani) e dal maestro Scanagatti (Totò), mentre Isa Barzizza era la “femme fatale” che chiedeva asilo perché inseguita da un prepotente corteggiatore.
Rispetto alla scena teatrale, la versione cinematografica subì qualche modifica probabilmente a causa della censura. Il finale, in particolare, fu radicalmente diverso: a teatro Totò tirava fuori una rivoltella e riusciva a scaraventare l’onorevole fuori dal finestrino per godersi una notte con la Barzizza; nel film invece sia Totò che Trombetta finiscono vittime della donna, che si rivela un’abile ladra di portafogli.
Proprio a proposito di questa scena Alberto Moravia, nel suo saggio “Al cinema: centoquarantotto film d’autore” (Milano, Bompiani, 1975), scrisse: «[…] Pensiamo per esempio, ai quindici minuti durante i quali Totò durante un litigio con un suo compagno di viaggio nello scompartimento di un vagone letto, sta continuamente per starnutire e non ci riesce. Cosa significa, cosa comunica uno starnuto? Nulla, assolutamente nulla. Eppure tutta la sequenza è di una comicità irresistibile, per niente squallida, né funebre».
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