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24 Gennaio 2024 - 12:36
NAPOLI. Ritrovarsi nel foyer del teatro, dopo aver assistito a un monologo magnetico, moderno, con tante domande che “sibilano nella testa” e due assolute certezze. Ecco descritta, in due righe, la sensazione che vivrà, nell’immediato dopo spettacolo, ogni fortunato spettatore che vorrà assistere a “Storia di un Oblio”, in scena fino al 28 Gennaio al Teatro San Ferdinando, nel cuore di Napoli.
La platea si è trasformata in un quadrato “intimo”, al centro del quale il pubblico che affluisce trova già la scena, scarna e drammatica, dentro cui tutto lo spettacolo si svolgerà, e il protagonista (l’intenso Vincenzo Pirrotta) dolorosamente chino e totalmente immerso nei pensieri contro cui lotterà chissà per quanto tempo. Forse per il resto dei suoi giorni.
L’assenza di sipario e la distribuzione delle poltroncine non può che porre gli spettatori in una situazione di ascolto, già mentre sono alla ricerca del proprio posto a sedere, generando così un afflusso silenzioso, quasi riverente, verso l’esperienza comune che si sta per vivere.
Buio, luce spot a tratteggiare ancora più drammaticamente le fattezze del protagonista, e senza alcun preambolo Pirrotta accompagna ciascuno dei presenti attraverso un flusso di pensieri, di ipotesi, supposizioni, ricordi, fino a porre tutti di fronte ad interrogativi granitici, freddi come solo la morte sa essere, forse insormontabili: come può un gruppo di uomini trascinare un’altra persona fino all’agonia e fino al suo ultimo respiro, solo per aver rubato una lattina di birra in un supermercato di periferia? E come farà, d’ora in poi, il fratello di quello che oggi non è altro che un cadavere, ad elaborare il profondo senso di impotenza che lo travolge?
Il testo di Laurent Mauvignier -un racconto breve di non più di cinquanta pagine: “Ce que j’appelle oubli” (quello che chiamo oblio)- dettaglia il punto di vista di ciascuno dei protagonisti, i carnefici e le vittime, con un realismo al tempo stesso sorprendente e raccapricciante. Sembra scritto per essere teatro, più che per prestarsi a diventarlo, e la messa in scena di un maestro come Roberto Andò ne esalta tutta la drammatica attualità, senza concedere nulla alla retorica da TV del pomeriggio, anzi, marginalizzando in due battute la superficialità cinica e il perbenismo patinato di una certa, odiosa, narrazione-per-la-massa.
Il Direttore del Teatro Stabile di Napoli, regista teatrale e cinematografico di fama internazionale, esalta così il talento di Pirrotta e la sua capacità di restituire al pubblico tutta l’intensità, tutto il peso di quel vortice di parole che cerca di trovare un senso alla morte, ma che riporta sempre ciascuno di noi di fronte alle stesse domande senza risposta.
Esiste una “zona dolorosa e opaca in cui ogni essere umano è destinato a sparire e a esser dimenticato”, come spiega Roberto Andò. E l’oblio, di fronte ad essa, è insieme conseguenza inevitabile ed anche strumento unico per provare a lenire il senso di profonda solitudine con cui ciascuno è costretto a convivere, quando la perdita di una persona amata segna la propria esistenza.
Lo spettacolo si conclude con l’attore trasfigurato, che veste i panni del fratello ucciso e condivide -fisicamente, dolorosamente- il suo vissuto col pubblico, che lo abbraccia muto e commosso.
E ci si ritrova così, nel foyer, arricchiti di tanto realismo e di tante, personalissime, domande. Ma anche di due, assolute, certezze: l’oblio lenisce ma non sana le ferite dell’anima, e Vincenzo Pirrotta è un attore dal futuro luminoso.
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