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L'intervista

Al Teatro Cilea la comicità di Casillo

“Colpo grosso a Villa Pignatiello” è una rivisitazione in chiave partenopea di un’opera di Carsana

Al Teatro Cilea la comicità di Casillo

Benedetto Casillo

Benedetto Casillo debutta il 30 gennaio al teatro Cilea con “Colpo grosso a Villa Pignatiello”, liberamente tratto da “Ma per fortuna è una notte di luna” di Ermanno Carsana. Lo spettacolo è scritto e diretto da Benedetto Casillo che sarà in scena con Patrizia Capuano, Gennaro Morrone e con Enza Barra, Luciano Piccolo, Orentia Marano, Salvatore Felaco e Salvatore Chiantone.

Lo spettacolo è una pochade francese in salsa napoletana: ce ne parla?

«Il testo da cui parto è rappresentato spesso in tutta Italia ed è un incontro tra due tipi di situazioni e di comicità; un giallo comico, direi quasi fumettistico, perché i personaggi sono da fumetto, e questi tipi di situazioni mi interessano molto. Una storia intricata con al centro una marchesa che vuole fregare una assicurazione facendo rubare un diadema che è assicurato, ma senza svelare altro della trama, dico solo che è molto intrecciata ed ha dei bei colpi di scena».

Qual è il messaggio di questo lavoro teatrale?

«Il messaggio potrebbe essere: non fare ad altri quello che non vorresti che fosse fatto a te perché alla fine... la marchesa resta fregata».

Ha portato la commedia già in provincia e lo spettacolo è stato molto apprezzato dai giovani, una cosa molto bella...

«I giovani, se hanno la possibilità di vedere un certo tipo di spettacoli, non solo il mio ovviamente, sono ben capaci di scegliere. L’importante è dare a loro, al pubblico, l’opportunità di fare dei paragoni di storie, di tematiche, di modi di recitazione. Ma se ci si lascia prendere la mano solo da aspetti legati alla pubblicità, come la presenza in scena di attori famosi in tv o al cinema, oppure si fa una grande pubblicità anche se il prodotto non è eccelso, ecco che possibilità di scegliere finisce. Se, invece, proponiamo più cose credo che il pubblico possa davvero apprezzare anche dei prodotti più “artigianali”, ma di qualità».

Ad un anno dalla morte di Enzo Moscato, con il quale ha lavorato undici anni, più teatri metteranno in scena suoi lavori riuniti nella rassegna “We love Enzo” ideata da Claudio Affinito: cosa le ha lasciato il grande drammaturgo?

«Ho scoperto di avere tante cose in comune con lui. Era un uomo di grande cultura e non mi permetto di avvicinarmi nemmeno lontanamente da questo tipo di vista, ma se parliamo di cultura intesa come esperienza di vita, che poi è la vera cultura, allora molte cose mi hanno accomunato a lui: le origini popolari, quelle dei vicoli, la riservatezza, il non volere essere un presenzialista».

Il suo famoso “to play”, il gioco del teatro, lo ha trasmesso anche a lei: in che modo?

«Il “to play”, il teatro come gioco, è qualcosa di stupendo, è come giocano i bambini. Sembra una contraddizione, ma non lo è perché chi gioca seriamente sono i bambini. Quando fanno il gioco loro lo fanno veramente, così il teatro quando si fa per gioco si fa seriamente. Giocare è qualcosa di sublime ed è lui che me lo ha insegnato».

Ha detto più volte che se porta in scena “L’uomo dal fiore in bocca” di Pirandello lo deve a Moscato: perché?

«È lui che mi ha insegnato a tradire, in senso artistico, a non avere paura di affrontare tutto in teatro, fatto con rispetto. Ho avuto tante remore, ma lui mi ha spinto verso questo lavoro che va in scena maggio. Sicuramente non tradirò Pirandello, ma ambiento la storia a Napoli, o meglio è un napoletano che sta affrontando il problema dell’attesa della morte che appartiene a tutto il genere umano. Questa volta ci metto un napoletano che parla la lingua di Pirandello, con alcune parole in dialetto perché vien fuori la sua anima, la rabbia, la rassegnazione, la speranza. Moscato mi manca tanto, fa parte di quelle persone che ha segnato la mia carriera e il mio essere persona».

Come si preserva la nostra tradizione?

«È un argomento complicato perché si affrontano i grandi testi nell’ottica che tutto può essere giusto, ma io ho timore che alcune trasposizioni moderne possano un po’ fuorviare l’attenzione delle nuove generazioni. Chi ha visto una certa tradizione, e poi si ritrova dei “tradimenti moderni”, è più armato per potere fare una differenza, rispetto a chi si trova davanti solo il moderno. Possiamo trovarci alla non comprensione da parte delle nuove generazioni di testi tradizionali resi in maniera antica, perché corrono dietro ad altri ritmi ed altre dinamiche. Secondo me non bisogna mai tradire lo spirito dei testi, dei personaggi. Ci vorrebbe un museo vivente dove si preservi il modo tradizionale di fare arte. Questo per potere fare un confronto con la modernità».

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