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Al San Ferdinando l’eredità di “Non ti pago” tra Eduardo e Luca

Due voci che ancora dialogano tra palco e platea, ricordandoci che il teatro, quando è vivo, non conosce né morte né distanza

Al San Ferdinando l’eredità di “Non ti pago” tra Eduardo e Luca

Rivedere “Non ti pago” tornare a vivere sul palcoscenico del San Ferdinando, a dieci anni dall’addio di Luca De Filippo, ha avuto il sapore di una riapparizione familiare, di quelle che si attendono in silenzio e che poi giungono come un soffio di memoria.

Era proprio questo, in fondo, il testamento artistico che Luca aveva iniziato a comporre nel 2013 con “Sogno di una notte di mezza sbronza” e che culminò nel 2015, quando mise in scena la paterna commedia, consegnandoci la sua ultima, lucidissima impronta di regista.

Il ritorno del testo, nato nel 1940 sul palcoscenico del Teatro Quirino con Eduardo nei panni di Ferdinando Quagliuolo e Peppino in quelli dell’antagonista Mario Bertolini (un tempo Procopio), rinnova quella dimensione sospesa tra sogno e superstizione che aveva affascinato critici e letterati, primo fra tutti Ennio Flaiano.

È la speranza, luminosa e ostinata, a muovere l’intera vicenda: speranza che si mescola al grottesco, che si contamina di cabala, di ansie popolari, di quella congerie di fantasmi e premonizioni che fanno dell’aldilà un vicino di casa indiscreto.

La figura di Ferdinando, gestore di un banco lotto e anima pirandelliana per eccellenza, torna qui con un volto inedito: quello del siciliano Salvo Ficarra, che con la cadenza di Girgenti porta in scena un’eco cara al poeta delle maschere e delle identità frantumate, tanto amato da Eduardo.

Accanto a lui, Carolina Rosi, custode scrupolosa dell’eredità di Luca, dà corpo e fermezza alla moglie Concetta, dominando la scena con naturale autorevolezza. Il folto gruppo della “Compagnia di Teatro di Luca De Filippo” sostiene con compattezza la struttura drammaturgica: Nicola Di Pinto è un “Aglietiello” uomo di fatica irresistibilmente maldestro, mentre Mario Porfito disegna con bravura "Strummillo" un avvocato squattrinato, tortuoso e magnetico; Marcello Romolo presta al parroco "Don Raffaele" un’aria di bonaria prudenza.

Completano il quadro Viola Forestiero, Federica Altamura, Vincenzo Castellone, Andrea Cioffi, Carmen Annibale e Paola Fulciniti, ognuno a tratteggiare la trama di un microcosmo umano sempre in bilico tra ragione e smarrimento.

Efficaci le scene di Gianmaurizio Fercioni, capaci di restituire la densità di un interno popolare attraversato da forze invisibili; preziosi i costumi di Silvia Polidori, le musiche di Nicola Piovani, le luci nitide e intelligenti di Salvatore Palladino.

La regia, nel solco e nel rispetto della visione originaria di Luca, conserva il tono farsesco come maschera di un discorso più cupo e sottile: l’anatema, la vincita contesa nata dalla celebre quaterna “1-2-3-4” che l’anima del defunto padre di Ferdinando indica in sogno non a lui ma al suo impiegato e futuro genero Mario Bertolini, l’irrazionale pretesa di Quagliuolo di rivendicare quei numeri come destino personale, l’umiliazione di Bertolini e la successiva resa che conduce al lieto fine, sono frammenti di un’umanità offesa, che lotta per difendere il proprio fragile diritto alla fortuna.

E come osservò Franco Carmelo Greco, è proprio in questo impasto di paure e attese che Eduardo coglie il cuore di un’epoca e, ancora oggi, il cuore della nostra. Pur introducendo qualche variazione, come la trasformazione dei fratelli Frungillo in fratello e sorella, la messinscena nata in coproduzione tra "Gli Ipocriti" e il "Teatro di Napoli", riafferma la forza modernissima del testo e il suo sguardo impietoso su una società dominata dall’invidia, dal denaro, dalla necessità di credere a qualcosa pur di non cedere allo sconforto.

E così, nel silenzio che segue l’ultima battuta, sembra di avvertire non solo l’ombra paterna di Eduardo, ma anche quella di Luca: due voci che ancora dialogano tra palco e platea, ricordandoci che il teatro, quando è vivo, non conosce né morte né distanza.

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