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Al San Carlo una “Medea” soddisfacente

L’opera di Cherubini, diretta da Martone, è stata apprezzata dal pubblico del Massimo

Al San Carlo una “Medea” soddisfacente

“Ma questo Cherubini (Luigi, autore della musica di “Medea” che ha inaugurato la stagione lirica del San Carlo) è forse parente, antenato di Jovanotti, che si chiama pure lui Cherubini, ma di nome fa Lorenzo?”. La simpatica battuta (sublime che va a braccetto con il ridicolo) è stata colta da chi scrive nel foyer del San Carlo durante l’intervallo della serata complessivamente lieta, che cancella un poco il ricordo delle due precedenti, inaugurazioni, con produzioni brutte e sbagliate, per certi versi offensive del pubblico e della musica.

Un po’ tutti, e taluno borbottando, ha compreso che al centro dell’opera c’è il tour de forces dell’orchestra (direttore tesissimo e compente, ed accuratissimo nella difficile impresa, Riccardo Frizza) e del coro ottimamente diretto da Fabrizio Cassi con l’onere di guidarlo nel grandioso finale secondo (nello spettacolo alla metà della seconda parte dell’esecuzione) al centro della sala, nella più ardita invenzione spaziale del regista Mario Martone, con grande squadra di collaboratori. Come altra volta Martone ha fatto cantare i personaggi in passerelle sull’orchestra, in sala: azzardo di antica data che risale a Max Reinhardt, il regista tedesco che ha fondato il festival di Salisburgo con Richard Strauss. Anche Roberto de Simone a San Carlo ha fatto qualche cosa del genere.

Nella scena ricordata (finale II)il regista ha fato di più ma tutti sono stati bravi nell’insieme perchè tutti autentici musicisti appunto: complessi del teatro, i due direttori, ed i cantanti. Nei ruoli piccoli hanno cantato con impegno Giacomo Mercaldo ( capo delle guardie), Maria Knihnytska e Anastasiia Sagaldak (prima e seconda ancella). Nei difficili e poco remunerativi ruoli maschili sono stai intensi ed autorevoli Giorgio Manoshvili e Francesco Demuro, che ha fatto quanto di meglio potesse nel cantare la parte di un personaggio tenorile ancor più antipatico del Pinkerton della “Butterfly”.

Desirée Giove era Glauce, brava nel canto e nella espressività del suo difficile personaggio, groviglio di letizia ed angoscia, prodotto di una fantasia artistica (di Cherubini) più attenta alla teatralità che alle ragioni del melodramma, e perciò piaceva a Brahms etc..). Magnifica nel canto il contralto Anita Rachvelishvili. Nel ruolo del titolo ha giganteggiato il soprano Sondra Radvanovsky: voce possente, acuti sfolgoranti e taglienti, voce disuguale nell’emissione ma di suprema ed eccezionale pertinenza espressiva, gestualità estremamente coinvolgente come sempre, ma certo esaltata dal regista. Peccato la pronuncia del testo aulico fosse assai meno scultorea del necessario.

Questo e la mancanza di un certo fuoco nella volenterosa orchestra, da parte del maestro Frizza, comprensibilmente assai prudente, sono state le due uniche fragilità della grandiosa produzione del San Carlo. Martone ha collocato la vicenda nella puntuale ripresa dell’ambientazione del film “Melancohlia”, di von Trier, collocando quindi il controverso finale di questa “Medea”, come di tutte altre, nell’ambito del Sublime più eccelso, secondo quanto ha spiegato anni fa l’insigne professore Massimo Fusillo, della “Normale” di Pisa, all’inizio del suo profondo saggio sul “Sublime” appunto, che apre l’edizione Mondadori/Lorenzo Valla, del famoso trattato greco.

Sia Fusillo, sia Martone, sia Pasquale Mari, grande artefice delle memorabili luci dello spettacolo sono stati alunni del liceo “Umberto” di Napoli, sezione B e G, compagni di scuola, e gli ultimi due di classe, maturità 1978. Dunque dal sublime involontario ed umoristico a quello più nobile: una “Medea”, che pure con l’esorbitante invenzione spaziale del regista, è legata sostanzialmente a lui. Dunque, parafrasando un celebre motto di Montale, critico musicale, abbiamo visto la “Medea” di Martone, con indubbia soddisfazione.

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