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De Laurentiis entra nel calcio globale con il quarto titolo

Un saggio amministratore di un bene che vale oro ma diventa cenere nelle mani degli sprovveduti

De Laurentiis entra nel calcio globale con il quarto titolo

Non è solo uno scudetto, il Quarto. È un ingresso trionfale nel calcio globale. Maradona, Divina Criatura, ha portato il Napoli nella leggenda, con lui lo scudetto era solo un atto notarile, con lui la città delle pizze e dei mandolini ha conquistato fama planetaria eppur restando, in patria, in sottordine alle solite Tre Grandi Juve, Inter e Milan chiuse nel castello dei finanzieri ricconi Agnelli, Moratti, Berlusconi finché non è arrivato qualcuno che li ha sconfitti con l’arma più potente, il bilancio.

Aurelio De Laurentiis è narrato facendogli interpretare tanti ruoli: il Padrone spietato, il Condottiero vanaglorioso, l’Antipatico senza passione, solo Interesse. E invece lo dico saggio amministratore di un bene che vale oro ma diventa cenere nelle mani degli sprovveduti arrivisti.

Aurelio è grande perché ad oggi è l’unico vero interprete italiano del calcio imprenditoriale come il Real, il Bayern, Il PSG, il City. Se tornasse Giulio Onesti con la storica invettiva contro i famosi Ricchi Scemi non lo coinvolgerebbe, anzi, ne elogerebbe le malcelate virtù che gli offrono un piacere intimo, quasi vicino al cuore, una furtiva stretta di mano a Jacqueline. Perché pubblicamente lui è quello delle smargiassate, della cazzimma e altre zeppole fritte in suo onore per negargli Abilità e Potenza.

Chissà se sarà mai popolare come Lauro. Che non vinse niente. Ferlaino è un caso a parte, è incollato a Maradona. Ma il mio Aurelio è quello cresciuto con Edy Reja che lorsignori i criticonzi famosi trattavano da servitore. Quante baruffe, finché un giorno si aprirono le porte dell’Europa. E a Marechiaro cantavano i Tre Tenori, Hamsick, Lavezzi e Cavani. Un Napoli siffatto è arrivato a cogliere un successo tanto grande quanto intelligente addirittura servendosi di un nemico di vecchia data, almeno secondo le regole del gioco popolaresco: quante volte avete mandato al diavolo l’Antonio Conte juventino che vi trattava da poveracci, da ansiosi provinciali, sventolando la mitica zazzera bionda e esibendo quel sorriso che spesso è veleno? Mai uno più detestato.

Adesso lo acclamate, adesso l’adorate ma solo perché ormai siete nel salotto buono dove ci si scambia il Ceo, i ragiunatt e anche i maghi. Così come lui, il Feroce Salentino, ha divorziato dalla Juventus, magari pronto a riconquistarla come fanno i divi di Hollywood. Perché è andato a vincere a Londra, a Milano e a Napoli per dimostrare che lui è il migliore. E forse è vero. E i calciatori? Non m’addentro nei commentari altrui, dico che il vanto di De Laurentiis è ad esempio nel trionfo di Kvaraskelia trascinatore del PSG, somma di audaci e prolifiche invasioni nel mercato indoeuropeo.

Del resto, ditemi chi ha sbagliato. Ha un senso pratico insolito per questo mondo: vende i migliori calciatori per fare soldi e acquisire il titolo di miglior mercante in fiera. Allontana i tecnici famosi come Benitez e Ancelotti fingendo di cedere al popolo, o anche un vincente come Spalletti per ribadire la sua superiorità. Stavolta, niente veleni: se Antonio vuole andarsene è la fine di un servizio. Non di un amore.

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