Tutte le novità
il vescovo di Nola
08 Maggio 2025 - 14:02
Francesco Marino
di Francesco Cimmino
NOLA. Le parole “padre e madre” dovranno essere sostituite sulla carta d’identità del minorenne con la dicitura generica “genitore”. Lo ha stabilito la Cassazione con una pronuncia che pone non poche questioni; noi tutti dovremo (molti controvoglia) adeguarci ma non per questo non c’è chi pubblicamente, vox clamantis in deserto, sente di esprimere un dissenso che - lungi dall’entrare nello specifico del diritto – vuole difendere una posizione: «la condizione affettiva naturale è quella di poter dire liberamente Mamma e Papà» è questo il pensiero di mons. Francesco Marino, Vescovo della Diocesi di Nola.
Con toni pacati ma decisi il pastore di una delle diocesi più grandi della Campania non teme di affrontare la questione spinosa, purtuttavia precisando che le sue perplessità non sono rivolte al contenuto giuridico, nel quale non ritiene di dover entrare, ma sono dettate solo dal buonsenso.
Prima di parlarne però è bene accennare ai fatti.
Con una sentenza pubblicata l’8 aprile (9216-25) la Corte di Cassazione ha stabilito che definire tramite i sostantivi “padre” e “madre” la filialità del titolare di una carta d’identità elettronica che risulti essere un minorenne è discriminatorio, giacché tali parole non rappresenterebbero la realtà di tutti i nuclei familiari italiani; di contro risulterebbe corretto e appropriato l’utilizzo - in loro vece - del più generico termine “genitore” che dovrà da questo momento essere utilizzato (in tali documenti) per indicare la paternità e la maternità del minore.
L’arresto della Suprema Corte nasce da un ricorso in cassazione proposto dal Ministero dell’Interno avverso la decisione della Corte d’Appello di Roma che, nel ritener giusto di disapplicare il Decreto Ministeriale del 31-12-2019, dava ragione a due donne omoaffettive le quali avevano adito il giudice del Tribunale non riconoscendo rappresentata la loro posizione nei confronti del loro bimbo (figlio naturale di una delle due) nè dalla parola madre nè nella dalla parola padre, presenti invece sulla carta d’identità elettronica.
Pare che questa pronuncia sia connotata più da una esigenza ideologica che da una necessità di diritto; prova ne sia il fatto che la Corte ha ordinato di disapplicare il decreto ministeriale in oggetto in quanto lo stesso “consentiva una indicazione appropriata solamente per una delle due madri (quindi sarebbe stato lecito scrivere madre anche per la compagna, ndr) e imponeva all'altra di veder classificata la propria relazione di parentela secondo una modalità (“padre”) non consona al suo genere”.
Il paradosso ideologico sta proprio in questo: mentre da una parte il Supremo organo accerta che obiettivamente il bimbo aveva due madri (!) propende poi per una soluzione ingiusta: se una donna - per forza di cose - non potrà mai chiamarsi padre, impediamo a tutti di usare questa parola. Il problema è che così facendo si mette in atto un operazione ideologica: si decide di espungere dal linguaggio amministrativo un sostantivo dal connotato ancestrale (il solo e unico che indica – e può indicare - una relazione connaturata all’uomo, cioè la paternità) solo perché non più adeguata ai tempi.
Quindi per venire incontro alla convinzione di una piccolissima minoranza si è propeso per l’abolire dalle carte amministrative una parola che sottende, anzi, è imprescindibile dal concetto stesso di procreazione.
Madre e padre dunque, due parole che lo Stato - attraverso uno dei suoi poteri, quello giudiziario - ha ordinato di bandire. Bandite dalle carte però, ma non dal cuore. Da lì sarebbe impossibile cancellarle. Da questo momento si potrà impedire di utilizzarle sui documenti, ma non potrà essere impedito di sussurrarle dolcemente, e forse in questo il loro sapore sarà ancora più delicato.
E la questione è ancora più gravosa in quanto, per il suo complesso sostrato semantico, attinge a più ambiti non ultimo quello teologico. Proviamo così a immaginare la ripercussione che potrebbe avere l’accettazione di questo ragionamento in un contesto speculativo e in uno quotidiano e sociale. In un’ipotesi solo immaginaria, e dunque in via astratta, sarebbe possibile rinunciare tout court a utilizzare tali parole?
«Se in teologia una tale scelta sarebbe impensabile e lontana dalla Fede – precisa mons. Marino -, in un orizzonte più ampio non parrebbe certo esente da critiche. Anche in un’ottica di ‘buon senso’ infatti tale decisione si manifesterebbe inaccettabile: da sempre il bambino dice mamma e papà, sono le prime parole che pronuncia; è proprio il buon senso dunque e l'esperienza accompagnate da un impegno sentito - quello cioè di preservare e proteggere la condizione della maternità e della paternità - che ci impongono di provvedere alla cura e alla custodia di queste due parole: mamma e papà».
Una delle asserzioni su cui poggia la decisione giuridica in discussione è quella di tutelare le minoranze. Ma l’operazione non sembra priva di controindicazioni.
«Certo assolutamente va garantito il rispetto per le persone che si trovano in una condizione di minoranza - prosegue il vescovo -, ma altrettanto va garantito, e né tantomeno può essere annullato o compresso, il diritto della maggioranza; se in via ipoteticamente dovessimo far a meno di poter dire mamma e papà, una tale rinuncia annullerebbe sostanzialmente una condizione affettiva naturale; e questa, a mio avviso, è la condizione ordinaria dei bambini che coinvolge, dipende e alimenta anche la dimensione profonda del linguaggio; non è soltanto per una questione teologica o religiosa, ma resta che mamma e papà sono proprio le prime parole che escono dalla bocca di un bambino»”.
Per concludere anche se il divieto esplicito di utilizzare le parole madre e padre è limitato all’uso da farsi in un documento ufficiale, non può negarsi che la questione - nel suo principio essenziale e in via ipotetica - coinvolga ambiti ben più ampi. L’uomo nel suo realizzarsi nella socialità fa fede sulla ‘relazione’: per Aristotele una delle 10 categorie dell’essere, per i credenti cattolici la realizzazione e l’estrinsecazione dell’amore che è Dio, non a caso rivelatosi come Padre.
«Non credo si potrà mai rinunciare a queste due parole. Una tale scelta – riassume mons. Francesco Marino - non rispecchierebbe la dimensione umana che si radica nella immagine della famiglia che a sua volta fonda la propria condizione iniziale nella natura specifica umana femminile e maschile, la realtà più naturale che possa sussistere».
Copyright @ - Nuovo Giornale Roma Società Cooperativa - Corso Garibaldi, 32 - Napoli - 80142 - Partita Iva 07406411210 - La società percepisce i contributi di cui al decreto legislativo 15 maggio 2017, n. 70. Indicazione resa ai sensi della lettera f) del comma 2 dell’articolo 5 del medesimo decreto legislativo - Il giornale aderisce alla FILE (Federazione Italiana Liberi Editori) e all'IAP (Istituto di autodisciplina pubblicitaria) Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo giornale può essere riprodotta con alcun mezzo e/o diffusa in alcun modo e a qualsiasi titolo