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Abilitazione degli avvocati: preparazione affrettata

Opinionista: 

Ha suscitato non poche reazioni nella settimana che s’è chiusa l’esito degli esami per l’abilitazione all’esercizio della professione di avvocato. Il dato che ha destato sorpresa è che circa i due terzi dei candidati all’esame per il distretto della Corte d’appello di Napoli, oltre quattromila, non ha superato le prove scritte. E per Salerno è andata ancor peggio. Di qui polemiche circa il valore della formazione presso i nostri corsi di laurea in giurisprudenza, ed anche non poche riserve sul modo di revisionare le prove, che sono state esaminate dalle commissioni istituite presso le Corti d’appello di Milano per i candidati partenopei e di Lecce per quelli salernitani. Non c’è dubbio, e l’esperienza l’insegna, che la valutazione delle prove d’esame negli esami per l’abilitazione all’esercizio della professione forense, sia spesso affrettata e non di rado del tutto arbitraria. Un arbitrio chiaramente voluto dallo stesso legislatore, se è vero com’è vero che da circa dieci anni viene puntualmente prorogata l’entrata in vigore della norma che prevede l’obbligo di motivare sinteticamente le ragioni del voto apposto alle prove. Una proroga disposta con ben quattro provvedimenti di legge, la cui ragione è del tutto inspiegabile, dato che l’obbligo di motivazione dovrebbe accompagnare ogni attività amministrativa. Ma tant’è, e dunque non c’è da meravigliarsi che le commissioni facciano un po’ come credono, dato che a questo – incredibile a dirsi – sono autorizzate per legge. Ma ciò osservato, è evidente che i problemi siano molti e vari. Di certo, la qualità della formazione che si consegue all’esito della laurea i giurisprudenza, non solo è libresca e del tutto avulsa dalle reali dinamiche del diritto, ma non fornisce neanche un minimo contributo alle tecniche di redazione di uno scritto giuridico: in pratica, salvo che per stilare la tesi di laurea – sempre più frutto di abili copisti – nell’intero corso di studi è difficile si metta penna su carta e tutto s’esaurisce in un’indigestione di magniloquenti volumi, che vengono più o meno convintamente recitati in sede d’esame. Ma nemmeno questo a me pare il principale problema. Forse il più serio, e quello che comporta maggiori conseguenze negative per la professione, è che non è stato nemmeno toccato, è che il numero degli avvocati ha raggiunto livelli esorbitanti, del tutto incompatibili con la dignità e la qualità richieste per la professione legale. Solo presso il Tribunale di Napoli gli avvocati superano i diecimila; in Italia la cifra sembra superi i ducentoquarantamila: quelli che un tempo erano i numeri di due corpi d’armata e mezzo. Si tratta di livelli d’affollamento del tutto incompatibili con il volume d’affari che si gestisce nelle aule di giustizia e che supera anche di cinque volte i colleghi schierati in molti altri paesi europei. Quella legale dovrebbe essere una professione di élite, come tutte le professioni, perché dovrebbe essere il frutto di serie selezioni, in esito ad adeguato apprendistato. La professione dell’avvocato, se svolta nelle forme appropriate, svolge un compito decisivo nella vita del diritto in una società. L’avvocato è infatti il primo filtro tra le istanze del cittadino e le risposte che lo Stato può offrirgli attraverso la giurisdizione e negli altri modi in cui il diritto viene messo all’opera. È l’avvocato a dover consigliare il cliente sul se intraprendere un giudizio o meno, se avanzare una domanda ad una pubblica amministrazione, se e come costruire una propria pretesa. Quando queste indicazioni vengono correttamente fornite, l’interesse della parte è perseguito; quando invece l’avvocato da selezionatore d’istanze si trasforma in moltiplicatore di contenzioso, l’intero sistema della giustizia entra in crisi. Ed è facile comprenderne le ragioni. Per poter svolgere il compito in modo serio e responsabile, l’avvocato non deve lasciarsi guidare dai suoi bisogni, ma da quelli del cliente. Altrimenti, sarà indotto a spingere verso il contenzioso, invece che a distogliere, perché fomentare il contenzioso corrisponde al proprio bisogno esistenziale, non alle esigenze di tutela espresse da chi a lui si rivolge. Perché l’intera macchina giudiziaria funzioni a buon regime, è necessario che il numero dei professionisti forensi sia ristretto, costituisca appunto una distinta categoria professionale, distinta per competenza, indipendenza, elevato rigore deontologico. Tutto ciò è per definizione escluso, quando un’avanguardia scelta di professionisti si tramuta in una disordinata truppa, che non è tenuta insieme nemmeno dalla disciplina militare. Questa situazione deforma ogni cosa: il modo di svolgere la professione, l’efficacia della risposta giudiziaria, la tutela del cliente, la qualità degli atti giudiziari, il rapporto tra magistratura ed avvocatura, le dinamiche stesse all’interno della categoria professionale e delle sue rappresentanze, locali e nazionali. Ed, ovviamente, incide anche sui modi in cui si fa selezione in sede d’esame di abilitazione, dove una certa difesa di classe – che da alcuni anni si va affermando – viene compiuta in modo talora arbitrario, ma nell’evidente tentativo di salvare quel che è salvabile, nel modo più rudimentale, perché filtri intermedi non ce ne sono d’alcun tipo. Ed il fatto stesso che desti meraviglia l’alto numero dei non ammessi è segno d’una deformazione nel giudizio: perché in realtà ad essere improprio è che oltre un migliaio di nuovi professionisti l’anno entri a far parte della categoria nel solo distretto della Corte d’appello di Tribunale di Napoli, quando invece i numeri adeguati dovrebbero essere decisamente più bassi se la classe forense volesse davvero andare verso la propria qualificazione.