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11 Settembre 2023 - 16:45
Ho voluto attendere in silenzio, e che calasse il silenzio, per scrivere poche righe sulla morte di Giovanbattista Cutolo. Per pudore, ma anche per vergogna. Quella che giustamente ha richiamato don Domenico Battaglia dall’altare di una chiesa del Gesù gremita eppure troppo vuota. Un po' anche perché – detto meglio e con più autorevolezza – io ho quasi pensato le stesse cose del vescovo di Napoli, in quella chiesa che ho frequentato quasi quotidianamente ai tempi del liceo, ed in cui riposa Giuseppe Moscati, che anche se nato Benevento (come San Gennaro) è anche lui figlio di Napoli, città in cui ha vissuto, lavorato ed in cui è morto a 47 anni. Credo che in nessun’altra città due mondi così distanti, due contraddizioni in termini, due alternative così nette e profonde, eppure due teste dello stesso Giano, si sarebbero incontrate nel loro destino: Giovanbattista e Luigi. Due figli della stessa città, due volti della stessa città, due alternative opposte, due mondi. Alle 4.20 del mattino. La fredda cronaca racconta i fatti ma non racconta tutto. E il tutto non si può raccontare. È un tutto che è schiaffo e sofferenza, ma anche colpa, responsabilità, grido di rabbia che si spegne nel pianto di dolore, e che troppo spesso non fa il percorso inverso di cui ci sarebbe bisogno: un grido di dolore che si sappia trasformare in rabbia. Creatrice, costruttiva, ermeneutica e maieutica, ma sempre impetuosamente rabbia. Abbiamo bisogno di una azione violenta. Ma autentica e coraggiosa che nulla ha a che vedere con quella codarda e vigliacca delle armi. Una violenza del fare con forza, senza concessioni e senza declinazioni e mediazioni. Una violenza che nasce dall’impeto di non voler più stare seduti, in ginocchio o in silenzio. Ma questa rabbia violenta può nascere solo da un cuore impetuoso, infervorato, che non sa accettare l’inaccettabile, ed ancora una volta invece prevale una finta moderazione dietro cui si nasconde il consueto alone di codardia e di guardare dall’altra parte. Le due città opposte e conviventi, in cui “la buona” finisce in questo silenzio con l’essere connivente. Caivano “non ci appartiene”, è altro da noi, come lo sono tante, innumerevoli, altre realtà che consideriamo a noi estranee, “fuori” dal nostro tessuto sociale, valoriale, di vita tranquilla e tranquillamente vissuta. Eppure la musica, quella di Giovanbattista, non era né tranquilla né innocente: era violenta passione. Perché l’arte se tale non è, non è arte. Anche quella musica si è spenta, perché non credo che in molti, pur avendola sentita con le orecchie, abbiano colto e si siano fatti cogliere e travolgere dall’Inno alla gioia suonato con un tempo da marcia funebre. Era la gioia di Napoli che moriva, non Giovanbattista. E di questo se ne sono resi conto troppo pochi, forse quelli troppo sensibili, per i quali – e in questo contraddico don Battaglia – forse Napoli non ha più posto. Io una di queste anime l’ho incontrata stamattina. Non è un cittadino italiano, ma è napoletano (nell’accezione di gente di cuore declamata da De Crescenzo, e quasi estinta), ed è un senza tetto (ma con fissa dimora) in pieno centro della napoli-bene: lui, stamattina, al sole, leggeva, e sapeva ancora leggerlo, Cervantes.
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