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Giustizia, a furia di frenare ci siamo persi la riforma

Opinionista: 

Sopire, silenziare, rinviare. La strategia sulla giustizia funziona. La riforma è sparita dai radar, lo scontro con la magistratura associata e politicizzata è stato riportato (per ora) nei ranghi e Carlo Nordio è sulle prime pagine dei giornali solo per la questione del sovraffollamento carcerario. Non lo sono più i suoi propositi e le sue dichiarazioni considerate incendiarie dai custodi dello status quo. Non è una normalizzazione, perché il problema è destinato a riesplodere, ma di certo questo mettere di continuo la polvere sotto il tappeto non aiuta. La maggioranza ha faticato finanche ad incardinare in Commissione il disegnino di legge per abolire l’abuso d’ufficio, quello che contiene anche alcuni limiti all’appellabilità dei pm nei confronti delle sentenze di assoluzione e altre cosucce di questo genere. Nulla di determinante insomma, eppure non si è riusciti ad approvare prima della pausa estiva neanche quello. Intanto i tempi della giustizia negata non si sono ridotti di un solo giorno, così come restano in piedi tutti i malfunzionamenti di un sistema che è universalmente riconosciuto come sommamente inefficiente e fonte d’ingiustizia, senza che nessuno faccia nulla di concreto per migliorare lo stato delle cose. Eppure, lo scontro che c’è stato nelle scorse settimane tra il Guardasigilli e l’Anm è servito a dimostrare che l’Italia non ha bisogno di un’aggiustatina al suo apparato giudiziario, né di una manutenzione occasionale, ma di riforme profonde e strutturali in grado di cancellare le incrostazioni corporative e ridare ai cittadini il diritto a una giustizia giusta. Chi fa appello alla responsabilità, deve avere poi la serietà d’immaginare la fine dell’anomalia di un ordine diventato contropotere dello Stato. Altrimenti non se ne esce. La nota, attribuita a «fonti di Palazzo Chigi», in cui si accusava una parte della magistratura di fare opposizione, aveva fatto sperare che stavolta si andasse fino in fondo senza guardare in faccia a nessuno. Invece da lì in avanti è stato tutto un progressivo frenare e arretrare, perché «non vogliamo lo scontro con la magistratura» e perché la riforma «non va fatta contro i magistrati». L’esito è stato fare uscire nuovamente la revisione della giustizia (quella vera) dal dibattito pubblico. Ci si sta battendo per cose inutili, mentre si trascura di creare consenso attorno all’urgentissima necessità di cambiare profondamente e radicalmente il sistema. L’ipotesi che sia bastato l’invio di un paio di avvisi di garanzia dalle parti di Fdi per indurre la Meloni a più miti consigli non va presa neanche in considerazione: Giorgia, che fieramente rispose di non essere ricattabile, non è immaginabile che ceda ad altri tipi di pressione. Per adesso hanno prevalso ancora una volta i teorizzatori dei processi di piazza. In compenso, singoli esponenti della maggioranza promettono che la sacrosanta separazione delle carriere tra magistrati requirenti e giudicanti si farà, ma non dicono quando. Sembra più un modo di buttare la palla in tribuna che di rassicurare gli elettori che li hanno votati. È vero che in Italia si moltiplicano i seguaci di Rousseau (tanto amato dai giacobini di ogni epoca), ma gli Stati democratici hanno preferito la lezione di Montesquieu e Tocqueville, che già all’epoca sostenevano che pubblico accusatore e giudice dovevano restare separati, altrimenti sarebbe stato un abuso. Anche lo scandalo esploso al Csm sull’onda del caso Palamara sembra essere passato invano: tutto dimenticato, tutto archiviato. Quella vicenda ci ricorda che una Nazione ostaggio di un falso dogma chiamato obbligatorietà dell’azione penale, in cui la classe dirigente non fa nulla per liberare i cittadini da questa ipocrisia, è destinata ad essere governata da un sistema fondato sulla gogna preventiva e la discrezionalità dei pm. Occorre più coraggio cacchio. Il resto è fuffa.