Scene da quarto mondo Napoli non ne può più
“Cimici al Vomero, formiche in corsia, blatte dovunque, colibatteri a mare, stese imperversanti come micidiali cavallette, disoccupazione alle stelle, escalation di illegalità quotidiane e di una camorra che presidia territori e fa terra bruciata”. Neanche nei “crudi e drammatici” diari su “Napoli ’44”, raccolti da Norman Lewis, l’ufficiale britannico con l’amore per la scrittura, di stanza nella nostra città con le truppe alleate della liberazione, emergono scenari simili. Che, oggi, invece, nell’anno 2019, sono riscontrabili in un caotico agglomerato urbano, conseguenza di una mancata visione di città, in cui è non si è riuscito a concretizzare un grande progetto di sostenibilità, di vivibilità e di innovazione, avvenuto però altrove. Com’è potuto accadere tutto ciò in una città, dove vi erano condizioni di favore oggettive - paesaggistiche, storiche, culturali - riconosciute dal mondo intero per svolte e futuri gratificanti? Le risposte immediate potrebbero chiamare in causa un presente di troppe negligenze e altro ancora. Ma, pur avendolo già altre volte denunciato, con la stigmatizzazione di precise colpe, sarebbe ingiusto, riduttivo fermarsi al presente, farne l’unico capro espiatorio di un contesto, da attribuire a una stratificazione di responsabilità e colpe di una classe dirigente, a partire, dai primi anni Ottanta. Definita magistralmente da un grande scrittore napoletano Raffaele La Capria: “classe digerente” e basta. Allora in seguito a due infauste circostanze, una tragica, il terremoto, e un’altra drammatica - crisi e dismissionì delle Partecipazioni Statali - da far saltare ogni progetto di futuro. La prima portò un flusso straordinario di denaro, in cui, grazie a meccanismi di appalti e subappalti di torbida natura emergenziale, la criminalità organizzata si tuffò con notevoli profitti; la seconda, invece, costò la perdita di oltre centomila posti, di conseguenza un’immensa disoccupazione, che ricattò il potere. E questi stette al gioco, trasformando i ricatti in una feconda rete di consensi e di convenienze. Con lo scoppio poi della Tangentopoli napoletana se n’è vista la portata diffusa e capillare, potuta addirittura ricostruire la “mappa” di complicità, contiguità e collusioni scandalose, che a tutto potevano badare tranne che al bene collettivo e pubblico. Nel dicembre del 1993 con l’elezione di Bassolino a sindaco di Napoli parve che tutto questo fosse alle spalle, superato da un concreto rinascimento. Ma non fu così: modernizzazione, recupero delle periferie, ripresa industriale rimasero sulla carta. L’unica cosa che funzionò fu far credere che Napoli stesse cambiando, mentre in realtà regrediva. Il taglio dato al Piano regolatore da Bassolino da recinto Vicereale, affatto competitivo, precluse alla città un respiro di sviluppo policentrico e verso Centro e Sud. Il seguito fu il decennio inerte della Iervolino, che impedì la partecipazione dei privati in Bagnolifutura e tralasciò l’opportunità storica di costruire i parcheggi pubblici, favorendo così il più grande “business” di tutti i tempi, con “tariffe orario” da capogiro. Uniche al mondo. Meglio, infine, tacere su de Magistris. In questo caso dovremmo usare una sigla sportiva da pagelle domenicali, np, non pervenuto. Comunque è in gioco per qualche anno ancora e può sempre sorprenderci con una “remontada”. Anche se ne dubitiamo. Napoli non ne può più.