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Solitudine del Natale ma con ostentazione

Restano le pietanze da riciclare, nel disperato tentativo di assolvere la nostra natura godereccia ed edonistica. Un esame di coscienza tardivo, prima di gettare il cibo superfluo nelle pattumiere e archiviare in fretta, ma solo fino a San Silvestro, le libagioni estreme, il chiassoso e volgare desiderio di appartenenza al gruppo selfistico e mefitico nelle strade dissestate di questa solitaria, immensa città metropolitana. Un rito pagano che inizia alla Vigilia, che accompagna in particolare questa gioventù alla continua rincorsa di qualcosa in cui credere, per poi sciamare verso casa, barcollanti nella nebulosa d'alcol e fumo ingeriti, ma contenti del gesto al limite. È l'altro Natale, quello pacchiano, egoista e irriverente, dove lo spirito religioso della Santa Nascita viene surrogato da quello dei cocktails a go-go, in qualsiasi angolo di questo agglomerato vulcanico da Pozzuoli a Torre del Greco, dai Campi Flegrei al Vesuviano. È anche il Natale della memoria, delle nostalgie sopite, da speculare in solitudine, quella intimistica del pensiero, dove non c'è posto per il piacere materiale, ma ritrova, sotto l'albero, l'album di ricordi agrodolci, cronologia essenziale per redigere, col senno di poi, un improbabile vademecum per il prossimo futuro. È sempre più un Natale consumistico, mediatico, che propina l'identica cineteca ogni anno, da “La vita è meravigliosa” di Capra ai vari adattamenti di “A Christmas Carol” di Dickens dove, per questo breve lasso di tempo, i panettoni hanno la meglio sui cellulari negli spot pubblicitari, mentre lo spazio dell'anima, ormai infinitesimale, viene ridotto alla trasmissione della Messa di Natale. Mai come quest'anno abbiamo avuto forte il senso della nostra solitudine. È una riflessione che deve essere affrontata anche all'interno della Chiesa, all'interno di questa assemblea di fedeli, sul messaggio di speranza che la nascita di Gesù dovrebbe trasmettere e invece resta inascoltato, declassato a ricorrenza “festiva e festaiola” da coloro stessi che si professano credenti. Perché se non si ama o non si è riamati, se non si perdona o non si viene perdonati, se si accolgono i diversi, i derelitti con un piatto caldo, una mensa in chiesa, soltanto per manifestare il senso del dono natalizio, poi tutto resta immutabile nel nostro percorso egoistico, allora è ostentazione. Una parola che ritengo calzante nella traduzione di “outing”: prima era verità dolente, scioccante e imbarazzante, oggi divenuto un termine abusato, tracotante e opportunistico. In particolare quando parliamo della nostra fede, il cui significato ecumenico si diluisce e somatizza nell'intimo di ognuno, perché non basta la sacralità di una cattedrale e la corale unisona dei fedeli a stemperare la solitudine della preghiera. Rimaniamo soli nella nostra inquietudine, nell'incoerenza fra professione di fede e quotidiano, soccombiamo di fronte alla nostra imperfezione. Ecco perché non condivido, a mio modesto avviso, la lettera che il sindaco di Milano, Sala, ha pubblicato su “Repubblica”, il 24 dicembre, ho difficoltà a comprenderne lo scopo e spero non sia stata un'occasione “natalizia” per fini elettorali. O forse l'intenzione era di “rappresentare” il dolore, il senso di “esclusione” delle migliaia di divorziati in Italia? Anche se fosse, è un gesto inopportuno, un'errata ostentazione di “ecumenizzare” un travaglio che resta interiore per ognuno di noi. Già, anch'io sono un divorziato, credente ma non osservante, perché sono venuto meno al sacramento del matrimonio. Sono un nonno padre, ho due splendidi figli adulti negli Stati Uniti, tre meravigliosi bambini qui in Italia e ho superato i settant'anni. Se la fede mi guidasse, come afferma Sala, dovrei ripudiare il mio passato, vivere in eremitaggio per espiare i miei peccati, ma non è così, la fede mi dilania in un'altalena continua di dubbi e rimorsi, in un costante dilemma fra il chiaro e l'oscuro dell'anima. Il mio “outing” finisce qui, non amo l'ostentazione. Amo ricordare le notti di Natale che trascorrevo nella casa canonica di mio zio Tonino. Erano notti speciali. Insieme ai suoi parrocchiani lo attendevo fuori sul sagrato, per augurargli buon compleanno, dopo la Messa di mezzanotte, al crepitio fiammeggiante di enormi ceppi di quercia. Si tornava a casa, su per il sentiero degli ippocastani, in silenzio, solitari, nella luce lunare, mentre fumava una “nazionale” senza filtro, ognuno col suo Natale nel cuore.

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