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I PERSONAGGI

Benedetto Casillo, un napoletano vero

Benedetto Casillo (nella foto) è un cabarettista, attore e autore italiano di cinema e teatro. È nato artisticamente nel duo dei “Sadici piangenti” attivo nei primi anni Settanta e costituito in coppia con Renato Rutigliano.

«Sono nato in una campagna al parco Comola Ricci. La mia famiglia era molto povera. Papà faceva il guardiano notturno del parco e mamma la lavandaia. Da bambino sognavo di fare l’usciere perché al contrario dei miei genitori, sarei stato al coperto lavorando anche poco. Vivevamo in due stanze ed eravamo in tanti. Questo mi ha dato grande forza e il diritto di potere parlare con chiunque guardandolo negli occhi. Sono stato educato con severità e nel rispetto dei principi che hanno valore nella vita. Quando ero alle elementari, per evitare che tornassi da solo a casa, andai a vivere con un fratello e una sorella di mio padre. Non erano sposati e abitavano vicino alla scuola, nelle adiacenze della Riviera di Chiaia. Ricordo con piacere il maestro Masucci, una persona molto colta, e se faccio un confronto tra quei tempi e i nostri giorni mi viene un po’ da sorridere al pensiero che aveva una lunga bacchetta con cui ci picchiava nel palmo delle mani oppure ci faceva mettere in ginocchio per punizione. È capitato anche a me e quando i miei genitori mi venivano a prendere a scuola, dopo averlo ascoltato, mi dicevano: “quando turnammo a casa hai o riesto a priesso”. Ho continuato a studiare fino al conseguimento del diploma di geometra. Due anni alla facoltà di Scienze politiche e poi basta».

Come si è avvicinato al teatro?

«Verso la fine degli anni Sessanta, nel 1967 frequentavo l’Associazione dei Cappuccini al corso Vittorio Emanuele, all’altezza della caserma dei carabinieri. I frati organizzavano molte attività da quelle sportive a quelle teatrali. A me piaceva giocare a calcio e volevo fare per forza il terzino. In verità ero scarso e l’allenatore mi faceva stare in panchina. Mi diceva “provvisoriamente”, ma a Napoli questo avverbio significa definitivamente. Infatti da quella panchina non mi sono mai alzato. Ero un ragazzino e mi dissero di provare a fare un’altra cosa, per esempio il teatro. C’era una bella compagnia amatoriale, ma quell’attività non mi attirava proprio. Una sera per curiosità scesi nei camerini e cominciai a provare delle parrucche. Mi guardai allo specchio e dissi a me stesso che non sei mai più salito sul palcoscenico. Meriterò l’inferno per questa bugia perché tempo dopo mi sono ritrovato a fare proprio l’attore».

Quando accadde?

«Dopo il colera del 1973 il Comune di Napoli aprì i cantieri e prese molti giovani a seconda delle loro specializzazioni. Io come geometra fui assegnato alla squadra che faceva lo spurgo delle fogne. Dopo qualche anno fui assunto a tempo indeterminato presso l’ufficio tecnico e mi occupai di ascensori e impianti di riscaldamento. Continuavo a frequentare l’associazione dei Cappuccini e una sera per caso mi trovai a sostituire un attore della compagnia teatrale. Si portava in scena un lavoro di Antonio Petito. Con me debuttò anche Marisa Laurito. Così, per caso, iniziò la mia carriera di attore che ho condiviso con il lavoro di impiegato comunale senza mai fare un’assenza».

Da amatoriale divenne professionista. Dopo quanto tempo?

«Quasi subito, nel 1967 facendo “La scuola dei padri” di Jean Anouilh, con il Teatro Club».

Poi incontrò Renato Rutigliano.

«Era reduce dall’esperienza con il gruppo di cabaret de “I cabarinieri”. Una sera ci incontrammo e parlando parlando nacque l’idea di metterci insieme. All’epoca a Napoli, oltre “I cabarinieri”, c’era il teatro Sancarluccio, fondato dagli artisti Pina Cipriani e Franco Nico. Ogni lunedì sera si faceva “Napoli ha fatto 13”, una specie di incontro a tema, precursore del Maurizio Costanzo Show. Ci fu la richiesta di un gruppo di cabaret e ci proponemmo noi due. Gli autori volevano puntare su un cabaret tipo Grand Guignol. Cominciammo a studiare i vari nomi che ci saremmo potuti dare e decidemmo per i “Sadici piangenti”. Era il 1974 e avemmo un grandissimo successo. Dal Sancarluccio passammo al Pentothal al Vomero. Una sera al teatro Mediterraneo dovette intervenire la polizia perché, esauriti i posti disponibili, era rimasta una folla di persone che volevano entrare per assistere allo spettacolo. Cominciò a farsi strada anche il fenomeno del bagarinaggio».

Un giorno decise di lasciare il posto fisso al Comune. Perché?

«Quando nel 1980 scoppiò il terremoto eravamo all’apice del successo con i “Sadici piangenti”. Abbiamo fatto trasmissioni televisive e un film insieme agli Squallor, “Arrapaho”. Spesso ero di guardia al Comune e se c’era un’emergenza dovevo andare sul posto. Ma nessuno mi prendeva sul serio perché quando dicevo che si doveva sgomberare per pericolo di crollo tutti pensavano che stessi facendo una battuta e si mettevano a ridere. A volte chiamavano anche i vicini e gli amici che venivano per farsi fare un autografo. Non potevo più lavorare in queste condizioni e dovetti fare una scelta. Nel 1982, con grande dolore di mia madre, lasciai il posto al Comune di Napoli. Poi ho scoperto che conservava con orgoglio i ritagli dei giornali che parlavano di me».

Perché si sciolse il gruppo?

«Per intromissioni esterne. Ci scritturavano contemporaneamente al Nord e al Sud a nostra insaputa. Quando lo scoprimmo, mi ritirai e sono stato un anno completamente fermo e senza lavoro. Poi ho ricominciato un poco alla volta. Ho fatto il primo film con Ciro Ippolito «Lacrime napulitane”, quindi televisione e poi sono ritornato al teatro da dove ero partito».

Con che cosa ha ripreso?

«Sempre con testi di Antonio Petito, con Paolo Spezzaferri. Ho partecipato a “A morte dint’o lietto” e a “Don Felice”. Contemporaneamente facevo da solo cabaret come monologhista. Poi mi sono avvicinato a testi francesi tradotti in napoletano. Mi piacevano perché sono delle bombe comiche ad orologeria. Pensiamo alle commedie di Georges Feydeau, dai ritmi serratissimi e con il loro gioco degli equivoci. Ho fatto una trilogia di questi testi francesi e la portai in scena soprattutto al teatro Cilea per aiutare la proprietà ad uscire da un periodo di crisi».

Un giorno la sua strada si incrociò con quella di Luciano De Crescenzo. Cosa accadde?

«Fu un incontro nato spontaneamente perché tutti e due eravamo clienti di “Vini e cucina”, una cantina di fronte alla stazione di Mergellina. Era frequentata da artisti e giornalisti e gestita da Ciccio Moccia e sua moglie Dolores, una donna vulcanica con una forte vena umoristica e ottima cuoca. Ero un habituè perché Ciccio era il presidente del Piedigrotta Calcio, la squadra di cui io ero l’anima e che avevamo fondato insieme. Sono stato anche premiato con una benemerenza per l’attività svolta nel calcio dilettantistico».

Dicevamo di De Crescenzo...

«Abbiamo familiarizzato subito. Siamo entrambi napoletani autentici, uomini di mare, lui di Santa Lucia e io di Mergellina. Frequentavamo gli stessi ambienti e tutto sommato mi sono ritrovato a vivere i suoi stessi sentimenti. La sua famiglia era come la mia. La religiosità popolare della mamma era come quella di mia madre. A casa sua c’è una splendida esposizione di “anime del purgatorio” e io ne ho sparse una quantità sul comò nella mia camera da letto. Gli piacevano molto i “Sadici piangenti” e un giorno volle incontrare prima me e poi Renato. Mi propose il personaggio di Salvatore nel suo film “Così parlò Bellavista”. A Renato quello dell’impiegato del Bancolotto».

Quanto è stato importante quell’incontro per la sua carriera?

«Molto, perché dopo “Così parlò Bellavista” ho preso parte anche agli altri due film, “I misteri di Bellavista” e “32 dicembre”. Sicuramente mi hanno dato una grande popolarità. Ma non è solo questo. Luciano è stato per me anche un maestro perché con i suoi ragionamenti, con le sue parole, ha dato corpo a delle verità che io avevo già acquisito a livello intuitivo. La sua visione della vita coincideva, come coincide, con la mia».

Che cosa rappresenta Salvatore, il vicesostituto portiere?

«Il napoletano vero, quello che mi sento di essere e che oggi, forse, non esiste più».

Cosa intende dire?

«Essere napoletani è una cosa molto difficile. Viviamo sul filo di un rasoio e possiamo cadere da una parte o dall’altra, deragliare in continuo, debordare in qualsiasi momento. La nostra generosità può diventare invadenza, la nostra religiosità può diventare paganesimo, la nostra intelligenza può diventare furbizia. Nel sapere trovare il giusto equilibrio in ogni cosa ha origine la vera napoletanità. È emblematico il rapporto che abbiamo con i santi e quanto sia difficile darne la giusta chiave di lettura. Le strade di Napoli, non solo quella “antica”, sono piene di edicole votive. Quasi in ogni casa ci sono gli “altarini” nelle camere da letto. Siamo pagani? No! Il santo è una persona di famiglia alla quale si parla, ci si raccomanda e ci si litiga anche, ma rimane comunque una figura che non è mai completamente astratta e mai completamente materiale. Capire questo significa trovare l’equilibrio nella sua natura».

Il napoletano è dialetto o lingua?

«È una lingua splendida, poetica e affascinante, ma parlata male è di estrema volgarità. I nostri riferimenti devono essere Ferdinando Russo, Raffaele Viviani, Libero Bovio, Gerardo Marotta, Luciano De Crescenzo».

Per lei chi è il napoletano per antonomasia?

«Totò, come artista e come uomo».

Ha scritto due libri. Di cosa parlano?

«Uno si chiama “Comicamaro” ed è una raccolta di miei monologhi. L’altro si chiama “All’ebbreca e stu fatto” (all’epoca di questo fatto) dove ho raccolto racconti di religiosità popolare. A questo proposito dal 1983 mi occupo della serenata alla Madonna nella chiesa di Piedigrotta. Si fa l’8 settembre ed è l’ultimo ricordo di quello che succedeva nella festa di Piedigrotta. Si celebra la Madonna dei Marinai, la Madonna degli Artisti, la Madonna dei Pescatori. Ogni anno partecipano gratuitamente artisti napoletani come Angela Luce, Antonello Rondi, Francesca Marini, Antonella Rotondi, Gennaro Morrone ».

In 52 anni di carriera ha fatto un’esperienza artistica molto singolare per il suo repertorio. Ce ne vuole parlare?

«Nel 1983 mi chiamò il regista Pierpaolo Sepe e mi propose di fare un lavoro di Samuel Beckett. Pensai tra me e me: “chisto è scemo”. Abbiamo fatto “Atto senza parole e altri testi”. Eravamo io, Tommaso Bianchi, Gigi De Luca e Franco Javarone. Poi mi disse se volevo fare “Le cinque rose di Jennifer”, il capolavoro di Annibale Ruccello. Per me è stata un’esperienza straordinaria. Con lui ho fatto ancora “Sik Sik l’artefice magico”».

Programmi futuri?

«Attualmente dovremmo riprendere almeno per due anni la tournèe teatrale di “Così parlò Bellavista”. Parteciperò poi al Napoli Teatro Festival Italia con “Raccogliere & Bruciare” liberamente ispirato all’antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters con testo, ideazione scenica, costumi e regia di Enzo Moscato. Sarà in scena alla Galleria Toledo il 9, 10 e 11 giugno prossimi».

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