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I PERSONAGGI
08 Novembre 2021 - 18:50
Laureato in medicina e chirurgia alla Federico II e specializzato in chirurgia toracica, Gianluca Guggino dal 2018 è il direttore dell’Unità operativa complessa di chirurgia toracica del “Cardarelli”. «Nasco a Napoli. Mio padre Emanuele è stato uno stimato architetto e mia madre, Marisa Fucci, pittrice e scenografa laureata all’Accademia delle Belle Arti. I miei genitori mi hanno educato secondo i valori fondamentali della vita e mi hanno trasmesso il loro amore e rispetto per gli altri. È un patrimonio di inestimabile valore che condivido con mia moglie Emanuela, e soprattutto con le nostre due figlie, Giulia e Isabella, e sottende costantemente il mio quotidiano lavorativo. Questa ricchezza è stata fondamentale per la scelta di iscrivermi alla facoltà di medicina e chirurgia all’indomani della maturità scientifica. Sono stato sempre convinto che il giuramento di Ippocrate consacra al servizio di chi ha bisogno, senza distinzioni di classe o di censo. Non ho mai pensato di fare altro perché ho sempre immaginato la figura del medico come colui che ha la possibilità di creare empatia con il paziente, accompagnandolo in un percorso, a volte molto difficile, senza mai farlo sentire solo e abbandonato a se stesso. Ho sempre avuto una naturale predisposizione per le materie scientifiche, che mi hanno dato quella rapidità di pensiero e capacità di sintesi, qualità molto utili nella professione medica».
Come è stato il suo impatto con la Federico II?
«Ho fatto tutto il corso di studi all’indomani di una riforma che consentiva di frequentare l’università a tempo pieno e viverla come se fosse un campus americano. Mi trovai in un gruppo di studenti che come me erano “affamati” di sapere, di scoprire, di approfondire per migliorare la propria formazione. Era nato tra di noi un metodo di studio basato sul lavoro di squadra. Avevamo capito fin da allora che bisognava fare sistema perché da soli non si va da nessuna parte. Eravamo amici e con alcuni di loro questo rapporto continua ancora oggi».
Quali sono state le materie universitarie che l’hanno affascinata maggiormente?
«Anatomia, fisiopatologia e l’arte della chirurgia. La prima studia la forma e la struttura del corpo umano. Il suo metodo di indagine è la dissezione. La seconda studia le modificazioni rispetto alla norma delle diverse funzioni dell’organismo nel corso di una qualsiasi condizione di malattia. La voglia di conoscere il nostro corpo ci portava a rimanere intere giornate presso i laboratori dell’ateneo per esaminare e dissezionare le diverse parti anatomiche».
Perché scelse chirurgia e, in particolare, quella toracica?
«La maggior parte degli studenti di medicina si appassiona alla chirurgia perché è la branca che soddisfa la voglia di risolvere immediatamente il problema. La scelta di quella toracica è dovuta al fatto che ha una forte impostazione clinica, dettata dalla necessità di conoscere la fisiopatologia respiratoria, in quanto si ha a che fare prevalentemente con i polmoni. Da un canto, quindi, occorre avere la manualità del chirurgo, dall’altro la capacità di instaurare con il paziente un rapporto clinico, ossia visitarlo e valutare con attenzione i segni e sintomi che permettono di capire il problema ed intervenire».
Nello specifico, di cosa si occupa la chirurgia toracica?
«Del trattamento di forme morbose su uno o più organi e/o strutture situati nella cavità toracica ad esclusione del cuore e dei grossi vasi. Quindi i polmoni, l’esofago, la parete toracica, il mediastino. Tra le patologie più frequenti ci sono le neoplasie polmonari e mediastiniche, le malattie della pleura come il pneumotorace, il versamento pleurico, le alterazioni della trachea e tutta la traumatologia del torace».
È considerata una chirurgia di nicchia. Perché?
«È estremamente specialistica e complessa, ha bisogno di strutture organizzate e di alto volume. Non ci sono interventi che si possono eseguire senza un personale esperto nella gestione pre operatoria, intra operatoria e post operatoria. La chirurgia toracica ha bisogno di anestesisti dedicati, infermieri con provata esperienza, gli stessi chirurghi devono aver acquisito notevoli capacità tecniche e gestionali. La chirurgia toracica è una branca pesante, a fronte di un non adeguato riconoscimento».
Quando ha cominciato a “conoscerla”?
«Seguendo il reparto del professore Ferrante, uno dei grossi nomi della chirurgia toracica napoletana. Inoltre dal quarto anno del corso di laurea, ogni giorno, dopo essere stato all’università fino a pomeriggio inoltrato, andavo a fare i turni in chirurgia d’urgenza al Cardarelli. Questa pratica ha costituito un’esperienza fondamentale nel mio percorso di formazione perché sono entrato in contatto con tutte le branche chirurgiche e “ho imparato l’arte e l’ho messa da parte” perché, come si dice nel nostro ambiente “più cose vedi e più riesci a riconoscerle”».
Ha trascorso una vita universitaria intensa ma anche molto sacrificata.
«Mi sono laureato in cinque anni e una sessione e poi ho studiato per altri cinque anni alla scuola di specializzazione. Questo mi ha portato a molte rinunce per quanto riguarda l’aspetto ludico. Nelle esigue disponibilità di tempo mi concedevo qualche partita a calcetto o a tennis, abitudini che ho mantenuto tutt’ora con le stesse limitazioni».
Dopo la specializzazione cosa ha fatto?
«Avvertivo che la mia formazione in chirurgia toracica era ancora incompleta anche perché l’università non era riuscita a darmi un’impostazione di livello “europeo”. Decisi perciò di andare all’estero per superare i miei limiti, affrontando ulteriori sacrifici e rinunce».
Dove andò?
«Feci una selezione tra gli ospedali della Francia, e andai all’ospedale universitario “Henri Mondor” e dopo un anno a Bobigny, presso l’ospedale universitario di Parigi XIII “Avicenne”, in entrambi come assistente di chirurgia toracica e cardiovascolare. Al “Mondor” ho lavorato anche con il primo robot “Da Vinci” che arrivò nel 2000 e che era una novità assoluta, veniva usato in cardiochirurgia. Trascorso il secondo anno volli fare esperienza anche in chirurgia dell’esofago e dei trapianti, ed andai, sempre come assistente, all’ospedale universitario di Marsiglia “Saint Marguerite”. Anche in quella struttura sono stato un anno e abbiamo eseguito 12 trapianti bi-polmonari. Per tre anni ho vissuto negli ospedali, non conoscevo il francese e dovetti impararlo per potermi inserire perfettamente nel sistema, dialogare con i pazienti, partecipare ai briefing quotidiani. Ero fidanzato con Emanuela che volle raggiungermi affrontando anche lei rinunce e sacrifici. Con il suo amore mi ha aiutato nei momenti difficili dandomi forza quando ero preso da dubbi e incertezze, mi ha sempre supportato e sopportato, senza di lei non ce l’avrei fatta».
Perché ritornò in Italia?
«Mi chiamarono dall’università “Tor Vergata” di Roma perché era stato avviato un progetto di trapianti polmonari. Ho trascorso un periodo molto bello e molto intenso dovuto al fatto che nell’ateneo si stava facendo strada l’idea di adattarsi al modello europeo. Nei due anni di permanenza, però, mi convinsi che probabilmente non era quella la sede nella quale sarebbero potute emergere e crescere le mie capacità. Quando mi comunicarono che ero risultato vincitore di un concorso per dirigente medico di chirurgia toracica al Cardarelli, al quale avevo partecipato prima di partire per la Francia, decisi di tornare a Napoli nell’ospedale dove avevo iniziato la mia avventura: volevo avere la possibilità di iniziare un percorso autonomo».
Incontrò difficoltà?
«Ho avuto la grande fortuna di conoscere il professore Guglielmo Monaco, il primario di chirurgia toracica. Una persona eccezionale conosciuta a livello internazionale. Ha creduto in me, mi ha dato spazio, la possibilità di esprimermi facendomi crescere utilizzando il bagaglio di esperienze maturate all’estero. Questa crescita mi ha portato a diventare direttore di unità operativa complessa di chirurgia toracica del Cardarelli a 48 anni. Il professore Monaco era andato in pensione nel 2016 e diventai facente funzioni di primario. Nel 2018 fu bandito il concorso per direttore e lo vinsi. Lo definisco sicuramente il mio mentore, nutro nei suoi confronti un profondo affetto e continuo ad essere in contatto con lui».
Quali innovazioni ha apportato come direttore?
«Sotto l’aspetto organizzativo ho cercato di formare un gruppo. I colleghi della vecchia guardia erano andati anche loro in pensione e in attesa di nuove forze di dirigenti medici, abbiamo portato avanti, h24, l’attività di elezione ed urgenza solamente in tre, aumentando il numero di interventi. Abbiamo avviato percorsi mini invasivi per l’oncologia, introdotto il robot “Da Vinci” dopo un ulteriore training all’estero, inoltre due anni fa abbiamo sottoscritto una convenzione con l’azienda ospedaliera Pausilipon-Santobono per eseguire interventi di chirurgia toracica oncologica pediatrica. Mi sposto con l’anestesista e la strumentista ed operiamo con i chirurghi pediatrici bambini dai 3 mesi ai 16 anni, laddove prima molti piccoli pazienti andavano al Nord o all’estero. Sto cercando di dare un’impostazione europea».
In che cosa consiste?
«Creare una squadra dove ciascuno si sente responsabile ed è referente di alcune aree nell’ambito della chirurgia toracica. L’unico principio che vale per andare avanti è quello della meritocrazia per cui se non sei bravo non vai avanti. Ognuno partecipa con la propria conoscenza, capacità ed esperienza maturata nel corso degli anni. Ogni caso clinico è oggetto di discussione. Il Cardarelli ormai non è più identificato solo come urgenza, pronto soccorso, ma ospedale di innovazione e di eccellenze con l’avvio di gruppi oncologici multidisciplinari, che settimanalmente portano un gruppo di specialisti al confronto nell’applicazione delle linee guida o evidenze scientifiche sul percorso che i pazienti con tumore del polmone devono seguire e con la creazione di una rete oncologica campana, attraverso i rapporti con le altre realtà ospedaliere regionali. Inoltre si continua a portare avanti l’attività scientifica. Collaboro con il Cnr, l’università Federico II e la Vanvitelli e abbiamo realizzato una serie di lavori scientifici, recentemente pubblicati, perché l’aspetto ospedaliero non deve prescindere da quello scientifico universitario».
Cosa significa per lei essere direttore di una Uoc?
«Non fare soltanto interventi complessi ma dare anche l’esempio di integrità, di precisione, di attenzione, mantenendo ancor di più il rapporto con i pazienti. Gli stessi pazienti se hanno un dubbio o un problema mi contattano su whatsapp. Abbiamo diverse chat attive per la pianificazione ed organizzazione, si è sempre connessi per un consiglio o un dubbio e si cerca di essere sempre disponibili».
Medico e manager, quindi?
«Oggi la funzione di tutoraggio e la managerialità sono fondamentali. Sono concetti europei. Se manca un’organizzazione efficace ed efficiente, se non si utilizza la delega per dare la possibilità agli altri di esprimersi e verificarne il valore e le capacità, se non si crea rete e sistema non si cresce e non si progredisce. Il prezzo che si paga per queste mancanze è molto alto perché si resta sempre indietro».
Ha qualche progetto nel cassetto? «Un luminare della chirurgia toracica a livello mondiale ha detto che questa branca non è completa se non comprende anche il trapianto del polmone».
Un messaggio da fare passare?
«Napoli deve ritornare a essere un punto di riferimento universitario. Nella medicina e nella chirurgia abbiamo tante eccellenze ed è assurdo che i medici vadano altrove oppure che lo faccia il paziente, se lo si mette nelle condizioni di essere seguito e trattato in maniera valida ed innovativa. Il Cardarelli risponde alle necessità dell’utenza. Ho operato molti pazienti che sono venuti qui a Napoli proprio perché erano consapevoli di ciò. Allora occorre che tutti, ciascuno per la sua parte, si rimbocchino le maniche per invertire la tendenza».
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