L’opera di Edward Hopper mette in rilievo la condizione esistenziale della solitudine fornendo una lettura dell’America degli anni tra le due guerre mondiali, ove si afferma la consistenza dell’atomismo soggettivo. Hopper spiega agli Americani che la solitudine è una condizione umana che può essere variamente vissuta; ed Hopper stesso (nella foto la sua opera “Solitudine” del 1927) ma anche un artista come Rockwell Kent, spiegano agli Americani che quello è il prezzo del successo del ‘modello americano’ Occorre analizzare le cose in profondità e si può allora osservare che, col passare del tempo, l’eredità che lasciano autori come Hopper o Kent è quella che promana dalle prospettive delle grandi solitudini che distinguono l’esistenza delle persone. Ci si può domandare dove approderà questo processo storico di cui Hopper – sia sul piano della pratica pittorica che su quello della tenuta contenutistica – si è reso interprete e che ha portato alle sue più estreme conseguenze, maturando, peraltro, egli, un’esperienza figurativa molto simile a quella messa a punto da un altro artista appartenente ad un sistema politico e culturale di tutt’altro segno, come Alexandr Deineka, che opera in Unione Sovietica. Ed osserveremo, allora, che, la ricerca artistica prodotta da Hopper si rivela come una vera e propria “matrix”, da cui discendono le declinazioni della pittura nordamericana di seconda metà del ’900 che si affermano nel segno non solo della cultura “pop”, ma, soprattutto, di quella “iperrealista”. Intanto, in mezzo, occorrerà aver conto anche di personalità come George Segal o Mel Ramos, che non mancano di dotare la caratura di alta intensità figurativa di Hopper di un più intenso sapore ‘espressionistico’. È certamente un ‘espressionismo’ da non confondere con quello della stagione tedesca del primo ‘900, ma che vale a dare un senso alla ‘solitudine’ di Hopper, rivelandone il carico esistenziale, non senza produrre, così sembra, un dissimulato effetto di narcosi sociale.