Me ne sto in casa, non ho un motivo impellente per uscire perché sono pensionato, ma essendoci costretto la voglia di uscire diventa irrefrenabile, con l’attrattiva di tutte le cose proibite. L’unica aria che mi è possibile concedermi è quella del balcone che affaccia sul retro del cortile condominiale. Non ci sono passanti, non si vedono i condomini che corrono veloci dall’atra parte del palazzo, imbavagliati e blindati dal portone alla macchina e viceversa Eccolo là, ,sull’angolo del balcone, che si stiracchia al sole, ma vedendomi arrivare, me ne accorgo immediatamente, mi fissa subito distogliendosi dall’impegno di stendersi e di sgranchirsi le giunture. Noto anche che vorrebbe parlarmi, visibilmente preoccupato, però, di non essere capito, perché io e lui abbiamo diversi codici di comunicazione. Mi avvicino sorridendogli e cerco di abbracciarlo. Non è facile farlo perché lui è molto più largo di me e non so a quali delle sue numerose braccia avvinghiare le mie. È ancora fresco e robusto; in fondo ha solo venti anni meno di me e adesso, dopo i momenti di grande difficoltà che ha attraversato, sembra aver reagito bene alle attenzioni che gli ho dedicato. È stata un po’ lunga la cura iniziata quando, poverino, stava proprio male e gli specialisti del condominio – e il condominio dove abito è pieno di specialisti di qualche cosa - mi consigliavano di lasciarlo perdere e di abbandonarlo al suo destino. Vista la sua indecisione sono io a rompere il ghiaccio e a parlare per primo. Gli ricordo, a bassa voce, sempre per evitare che il condomino specialista, proprio quello che consigliava l’eutanasia, uno di quelli che stanno sempre sul balcone, con il sole o con la pioggia, a registrare chi entra e chi esce e con chi, mi senta e mi rimproveri o peggio rida di me. «Te lo ricordi - gli dico - l’altro balcone, il terrazzino, sul cui parapetto, ridotto ormai quasi pelle e ossa, ti eri afflosciato, fissando il vuoto, come se volessi buttarti di sotto da un momento all’altro?». Lui ha quasi un fremito. Mi ha sentito, ha capito! Ma non ha ancora il coraggio di rispondermi. «È bastato poco, in fondo – aggiungo – Ti ho fatto cambiare aria, togliendoti dalla trappola di quel terrazzino, ti ho alimentato con regolarità e con costanza, ma senza eccedere, ti ho pulito dalla cacca di quei maledetti piccioni che stanno sempre a evacuare in aria, ti ho raccontato i pettegolezzi condominiali e ti assicuro che mi accorgevo benissimo che sotto sotto te la ridevi, come sai fare tu, con eleganza, senza sganasciarti rumorosamente».. Quasi quasi mi verrebbe voglia di fargli vedere una foto di zio Lazzaro scattata sul terrazzino qualche anno fa; c’è anche lui nella foto ben visibile alle sue spalle, tutto striminzito e invecchiato più di lui. Poi mi dico che se ha difficoltà a parlarmi chissà quante ne ha a guardare una foto. Riprendo a parlare, anzi a bisbigliare. Gli chiedo se per caso gli dia fastidio il gelsomino che gli ho messo a fianco e che cresce più svelto dell’edera e si infila dappertutto, o se gli dia per caso fastidio il suo profumo penetrante, o se è addirittura geloso delle cure dedico a quel vivace rampicante. Con un movimento delle foglie, che non è dovuto al vento, perché oggi non se ne muove un alito, sembra volermi confidare qualche cosa. Allora finalmente capisco la sua reticenza a parlare; non vuol farsi sentire dal gelsomino. Mi metto allora tra i due e gli avvicino l’orecchio mettendoci istintivamente vicino il palmo della destra per renderlo più ricettivo.«Sto da Dio! – sussurra – Non ti preoccupare. Ora non mi manca niente e non mi dà nemmeno fastidio quel vanitoso che mi hai messo accanto. Va tutto bene, ma da che stai bloccato a casa, sono io che mi preoccupo un po’ per te». Poi assume un tono severo e mi fa: «Che aspetti a dimagrire un po’? Non vedi come ti sei ingrassato». Non ho saputo cosa rispondergli. Ma ho pensato: «Che amico, però, il mio vecchio ficus!». E l’ho riabbracciato.

(L'opera in foto è "Flowers" di Carla Viparelli)

Ci mancano i baci, gli abbracci, le carezze? E persino i “paccheri” e i pizzichi? Le parole, con la loro magia, possono restituirceli attraverso un racconto. La strategia è vecchia ma sempre valida, quella del nostro Boccaccio: dare spazio alla fantasia e narrare una storia al giorno, così la quarantena sembrerà più breve. Dopo il Decamerone è tempo di scrivere il “Quarantenamerone”: saranno i lettori, con i loro racconti, a farlo inviando il loro scritto all'indirizzo armida.parisi@ilroma.net. Due i vincoli: la lunghezza e l’argomento. Il racconto dovrà essere lungo tremila caratteri, spazi inclusi, e ispirato al tema “Baci, abbracci, paccheri e pizzichi”. La redazione selezionerà i migliori e li pubblicherà sulla pagina culturale del quotidiano e sul sito, dove il testo è arricchito dalla riproduzione di un’opera dell’artista Carla Viparelli in sintonia con il tema proposto.