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taccuino di manhattan (2)
09 Settembre 2025 - 10:02
Il signor Giuseppe Piccione lo incontro in una delle migliaia di pizzerie di New York. Piccoletto, portamento fiero, orologio in metallo dorato e camicia a quadri a mezze maniche ben stirata. Qualcosa di lui sa di italiano. È dei miei compatrioti che sono alla ricerca e ho cominciato da Brooklyn. Ma l’impresa si è rivelata difficile più di quanto mi aspettassi. Arrivo in metro (35 dollari e viaggi una settimana con bus e subway senza limiti) quindi sbarco in una città tutta diversa da Midtown, da Times Square, Broadway e la 5th Avenue. Devo decidere dove dirigermi e chiedo a due donne che si prodigano in indicazioni. “Gli italiani? Li troverete a qualche centinaio di metri da qua: ve ne accorgerete dalle decorazioni che hanno davanti casa”. Dunque, è così che si distinguono gli italiani di terza e quarta generazione a New York? - dico tra me - allestiscono festoni davanti casa?
Comincio a camminare, a camminare, a camminare lungo la 18th Street… nessun festone, e neanche italiani. Intorno a me solo uomini, poi donne con bambini, famiglie che fanno la spesa, ragazzi che rientrano da scuola. Il quartiere che attraverso è popoloso e popolato solo da ebrei ortodossi.Mi accorgo che le case espongono scritte in ebraico, i negozi di scarpe sono affollati da uomini con la kippah e portano tutti, ma proprio tutti, le ciocche di capelli ondulati che pendono dalle tempie. Le donne, in abiti neri lunghi fino ai piedi, hanno il capo coperto da una parrucca, o da un velo, secondo l’usanza ebraica. Qui, persino le bambine (meno male non tutte) vestono in nero come le mamme. Abitino alla caviglia e scarpette nere. Hanno tutti il passo svelto e qualche uomo adulto porta in braccio una specie di cuscino nero con ricami in oro. Ricordo quindi che è venerdì pomeriggio e, tra qualche ora, comincia lo Shabbat.
Sì, ma gli italiani con le decorazioni fuori casa dove sono? Poi finalmente mi si para davanti agli occhi una luminaria tricolore con la scritta “Santa Rosalia”. Cammino per chilometri e mi fermo esausta alla pizzeria dei “Due Fratelli”. Eccoli gli italiani. Ma si tratta di due pizzaioli asiatici e davanti al bancone incontro Giuseppe Piccione. Attacco bottone. Lui risponde con gentilezza ma si schermisce. Mi dice che gli italiani sono a Little Italy, Mulberry Street: solo in quella strada. Tanti ristoranti e null’altro. Ma i negozi? Le famiglie che abitavano tutte vicine, come avevo visto poco prima nel quartiere degli ebrei ortodossi? “Non solo ortodossi - mi spiega il signor Piccione - Tutt’intorno ci sono altri ebrei, quelli che vestono abiti comuni. Sono anche di più“.
Gli chiedo: da quanti anni vive qui? Avverto un accento romano… ”Sono di Vittoria - risponde quasi offeso - ho vissuto 10 anni a Roma ma il mio è accento siciliano. Sono qui da quasi 50 anni”.
Che lavoro svolgeva? “Avevo un negozio di abbigliamento ed ero sarto”. Non intende raccontarmi nulla della sua vita a New York. Mi dà una indicazione sulla mappa di Manhattan indicandomi Bensonhurst, luogo dove potrei incontrare italiani. Poi si allontana. L’istinto non mi consiglia di proseguire, ma non gli presto ascolto e così, dopo altri 20 minuti in bus, mi ritrovo di nuovo nel nulla… alla mia destra un verdissimo prato da golf e gentili signore impegnate a misurare la distanza dalla buca.
Il giorno dopo mi sono infilata in una pizzeria di napoletani a Greenwich Village, il quartiere dei radical chic di Manhattan. È sabato mattina e, intorno alla “Ribalta”, si sviluppa l’interminabile mercatino di bancarelle “alternative” e di cibo etnico e bio, accompagnato da musiche latino-americane. Nel locale si prepara il maxischermo per guardare la partita del Napoli.
I camerieri sono giovani e allegri, al banco del bar un ragazzo di Torre Annunziata e posti d’onore per i dirigenti campani del Club Napoli New York City. Il clima è di festa e la pizza è buonissima. Era così che l’avevo immaginata la Napoli degli emigrati della mia a terra a New York.
Ma questa è una favola che dura due ore. Il Napoli la regala a chi è lontano 7.200 chilometri (una volta a settimana).
La ricerca degli italiani, emigrati dalla seconda metà dell’Ottocento fino a metà del Novecento, continua. E il giorno dopo, visitando Ellis Island, capisco perché il signor Piccione era sfuggito alle mie domande. Scoprirò le ferite e le umiliazioni di un popolo in fuga dalla miseria che, sradicato dalla propria terra, deve cominciare a parlare un’altra lingua, a mangiare e sopravvivere in altro modo.
Ellis Island la raggiungo in traghetto. Ora sono destinata a vivere stati d’animo contrastanti, dominati dalla tristezza.
(2. continua)
https://www.ilroma.net/news/opinioni/852948/sulle-tracce-di-san-gennaro-la-new-york-senzanima.html
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