di Luca Maurelli

NAPOLI. «Una notte, quella maledetta notte, in ospedale arrivò Ciro Esposito, morente. Io ero lì, al Gemelli, a curarmi il tumore, avevo letto sul cellulare che avevano ferito quel ragazzo napoletano, anche lui, come me, tifosissimo. Anche lui, come me, a soffrire in una corsia d’ospedale. Volevo andare da lui: fu una notte tremenda, nonostante la vittoria, ma non potevo....». Era il 3 maggio del 2014, a Roma da lì a poco si sarebbe giocata la finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina vinta dagli azzurri e rovinata dal gesto folle e criminale di Daniele De Santis. Ciro non ce la fece, Francesco Caiazza (nella foto) sì, e oggi può raccontarlo. 

LA LOTTA CONTRO IL CANCRO. Il “miracolo” per lui, campano di origini, umbro all’anagrafe, si è consumato dopo quasi quattro anni di “via crucis” di malattie tremende con l’allora sedicenne in dribbling, come un Insigne in pigiama, in corsie d’ospedale tra tumori e leucemie, fino alla “luce” intravista nel 2016, con i sintomi della remissione, l’inizio di una vita nuova, il sogno di diventare ricercatore, scoprire medicine e battere il cancro, vendicarsi dei suoi anni di  paura e sofferenza. Il pallone di quella finale vinta dal Napoli ora fa bella mostra di sé nella sua casa di Collesecco di Gualdo Cattaneo, vicino Todi, con tutte le firme dei calciatori del Napoli, su un piedistallo realizzato a mano dal nonno, come per una sacra reliquia. Quel pallone fu un dono di Daniela Di Fiore, la sua insegnante napoletana del Gemelli che si occupa dell'istruzione dei ragazzi ricoverati nel reparto oncologico a cui ha dedicato due libri, “Ragazzi con la bandana” e “Martina, la lotta coraggiosa di una guerriera sorridente”.
Francesco, oltre a essere un grande tifoso del Napoli, passione ereditata dai genitori, originari di Sarno, è anche un gran tifoso di Napoli, la città che ha spesso visitato in compagnia dei suoi parenti campani, prima e dopo i tre anni di inferno e di lotta con i tumori. «Ho visto anche il Duomo, la teca col sangue di San Gennaro....», che forse, nella sua ultima battaglia contro una leucemia fulminante, una manina l’ha allungata. Ma quello che per lui è il monumento più importante, lo stadio San Paolo, non l’ha ancora visitato. 

IL SOGNO DI CONOSCERE HAMSIK. «Il mio sogno è conoscere il mio idolo Marek Hamsik, di cui ho avuto una maglietta con le firme dei giocatori, nei giorni per me più difficili. Da allora il mio desiderio è incontrarlo, vedere una sua partita allo stadio, potergli dire che il suo attaccamento alla maglia è straordinario...». Francesco segue il Napoli dall’inizio della sua risalita dagli inferi della serie C, un percorso quasi parallelo alla sua “resurrezione”. «A dicembre 2013 ho iniziato a avvertire diplopia, ancora non sapevo cosa volesse dire ma vedevo incrociato; poi cominciarono le nausee al mattino e fortissime emicranie. Feci una visita oculistica nel febbraio 2014 e nel fondo oculare si intravide un edema». Seguì una risonanza magnetica d’urgenza, da cui emerse un germinoma cranico, una massa tumorale dietro il nervo ottico. Aveva 16 anni e fu ricoverato al Policlinico Gemelli a Roma, operato di idrocefalo causato dal tumore, quindi la radioterapia 5 giorni a settimana ospiti in una casa alloggio messa a disposizione dall’Associazione Genitori Oncologia Pediatrica (Agop), affiancato dai “maestri” del Gemelli. La promozione, la normalità, apparente, quindi la malattia che si riaffaccia, spunta all’improvviso, nell’attimo del divertimento. «Nell’anno della maturità, settembre 2015, do un cazzotto per scherzo a un mio compagno, durante una gita scolastica, la mano si fa nera, lividi ovunque, l’inizio dell’incubo, il ritorno al Gemelli...».  Lì iniziarono trasfusioni di sangue, quattro cicli di chemioterapia, vomito, i capelli che cadono, l’inizio di una nuova cura, con un farmaco immunoterapico, la speranza che si alterna alla rabbia. «Si avvicinavano gli esami di maturità e io decisi che dovevo impegnarmi al massimo per superarli, iniziai a preparare la tesina proprio in ospedale. Presi 78 su 100, un voto accettabile considerando quello che avevo passato. L’ultimo giorno in ospedale, dopo otto mesi, salutai con il cuore in mano i professori che mi avevano accompagnato in quell’avventura e che mi avevano spronato, con dolcezza e sensibilità, ad andare avanti. Mi salutarono regalandomi la maglietta della mia squadra preferita, e augurandomi di non rivederci più». Oggi Francesco ha un grande sogno: laurearsi alla Facoltà di Chimica farmaceutica a Perugia, e diventare ricercatore nel settore oncologico. Ma coltiva anche un piccolo sogno, di nome “Marechiaro”.