Si è chiuso ieri a Torino il Salone Internazionale del Libro dopo cinque giorni di presentazioni, incontri, dibattiti e convegni sul mondo dell’editoria e sulle nuove pubblicazioni. Fra gli autori presenti anche Maurizio de Giovanni (nella foto), un “napoletano scrittore” come ama definirsi, i cui libri occupano spesso i primi posti nelle classifiche di vendita.

Al Salone del libro ha partecipato a un “Omaggio a Georges Simenon” per celebrare il padre del Commissario Maigret a trent’anni della sua morte. Che parte ha avuto questo autore nella sua formazione quali sono gli altri Maestri del genere a cui sente di dovere qualcosa? 
«Innanzitutto, io credo che Simenon sia il più grande o almeno tra i tre più grandi scrittori del Novecento. La critica, più volte ingannata dalla sua prolificità e dal genere, lo ha estromesso dal vero e proprio olimpo degli autori del Novecento. Ma Simenon è straordinario. È così grande da non poter essere preso a modello, perché si partirebbe sconfitti in partenza. Simenon va letto, con incanto, come si deve leggere un autore del genere. Per quanto mi riguarda, ono chiaramente influenzato dalle mie letture, come è ovvio che sia: penso a Ed McBain, a Dashiell Hammett, a Stephen King, a John Le Carrè, a Rex Stout. Il livello è estremo e ti fa venir voglia di raccontare storie. Da qui ad arrivare a raccontarle come loro...». 

A Torino ha presentato “Le parole di Sara”, il secondo romanzo che ha come protagonista Sara Morozzi, una poliziotta in pensione. Può fare un ritratto di questo personaggio femminile che sembra destinato ad una nuova saga di successo?
«Sara è una donna che, semplicemente, odia ogni forma di menzogna. Dalle piccole alle grandi cose. Rifiutando ogni tipo di menzogna non si trucca, non si tinge i capelli, non usa scarpe col tacco, ma anche, e soprattutto, non si ferma alla prima apparenza, va in profondità, al di sotto delle cose. È un’esperta del linguaggio non verbale, quindi del linguaggio del corpo e delle espressioni del volto. Cerca la verità. La verità, tuttavia, è quasi sempre peggiore delle bugie, si mente infatti per abbellire la realtà. Così questa ricerca del vero la porta spesso a confrontarsi con un mondo che è molto peggiore di quello che appare». 

Dopo il successo televisivo “I bastardi di Pizzofalcone” ora sono anche un fumetto, proseguendo la collaborazione con l’editore Sergio Bonelli che aveva già pubblicato le graphic novels dei romanzi del Commissario Ricciardi. Quali suggestioni per questo genere cui lei collabora direttamente nella realizzazione?
«È stata un’intuizione fantastica della scuola di Comics napoletana. Vado molto fiero del lavoro che è stato fatto dai ragazzi perché era difficile e complicato. Si discosta dalla fiction, che era il modello più facilmente e direttamente riconoscibile dal punto di vista visivo, e si è deciso di realizzare una versione zoomorfa che è davvero fantastica: rispecchia il “nero” dei miei romanzi, ma in una chiave assolutamente straordinaria. Io credo che questa operazione migliori il mio testo, non è interno al romanzo, ma ne è una amplificazione. È di un’incantevole fantasia. ». 

I molti appassionati del Commissario Ricciardi desidererebbero vederlo presto sul piccolo schermo. Se ne parla da tempo e ora, seppure in modo non ufficiale, pare che Lino Guanciale possa presto interpretare questo ruolo. Può anticiparci qualcosa?
«Non lo so, riguarda la Rai e la produzione. Sostanzialmente non sono dichiarazioni che posso fare io. Non è un prodotto che mi compete. È tratto dai miei romanzi e io mi sono occupato anche delle sceneggiature, ma queste scelte artistiche non sono ascrivibili a me». 

Quindi la serie sicuramente ci sarà? 
«Sì sì, stanno già girando. È in corso questo lavoro che però è molto a valle del mio e non me ne occupo direttamente. Se Lino Guanciale lo ha detto, sarà vero. Poi riguarda tutto l’interpretazione della frase. Magari uno dice “vorrei tanto…” e viene interpretato come un “lo farò”. Questo non lo so, non ho notizie dirette in merito». 

Perché Napoli è così presente nei suoi romanzi e qual è il suo rapporto con Napoli?
«Ho scritto 25 romanzi, ma la parola Napoli non l’ho scritta mai, se non nel discorso diretto. Non l’ho scritto perché si capisce. Io non sono uno scrittore napoletano, definizione dalla quale molti miei colleghi fuggono, io sono un “napoletano scrittore”, sono ancora di più. Sono innamorato pazzo della mia città. È una città complicata: è una grande capitale del Sud del mondo, vicina a Istanbul, ad Atene, a San Paolo del Brasile, non certo a Rovigo o a Mantova. È una città talmente diversa, distante e lontana dalle altre, che deve essere e rimanere una città unica al mondo. Credo che non scriverei una parola se non fossi napoletano e non scriverei più se dovessi perdere Napoli. Mi sento fortemente interconnesso con la città. Nonostante la difficoltà enorme di vivere una città che ha tanti contrasti, che vive di contraddizioni, che ha la periferia in centro e che ha larghe fasce del territorio che non sono sotto il controllo dello Stato: io lo trovo scandaloso. Trovo che sia scandaloso che un Ministro della Repubblica si faccia fotografare con un mitra in mano e poi non si riesca ad assicurare il controllo dello Stato su vaste aree di territorio della terza città del Paese. Trovo terribile che ci facciano credere che cinquanta disgraziati a bordo di un rimorchiatore siano la vera minaccia e non si rendano conto che in Calabria, in Puglia, in Campania, in Sicilia, ci sono enormi territori che non sono sotto il controllo dello Stato, ma della criminalità organizzata e che questo controllo, non sia assicurato ai cittadini che pagano regolarmente le tasse, che dovrebbero poter vivere in un certo ordine. Trovo terribile che una città come la nostra abbia un ragazzo su due che non va alla scuola dell’obbligo e, stando per strada, costituisca il naturale serbatoio per la criminalità organizzata. Tutto questo è terribile e non è possibile sopportare ed essere testimoni di tutto questo in silenzio». 

Capita sempre più spesso che gli appassionati di tutta Italia dei suoi romanzi chiedano, quando vengono a Napoli, di visitare i “luoghi” di Lojacono o di Ricciardi, da Pizzofalcone al caffè Gambrinus. 
«Una volta mi trovavo proprio al Gambrinus e vennero dei turisti dall’Ecuador, che avevano letto alcuni miei romanzi. Non riuscivano a credere che io fossi vivo: ritenevano fossi un autore classico e che fossi morto da tempo». 

Dopo la pubblicazione de “Il resto della settimana”, edito da Rizzoli, la sua fama di scrittore anche del mondo del calcio è divenuta nazionale. Questo particolarissimo genere è una caratteristica del tutto personale e peculiare nella sua produzione letteraria. Come è nato, quali sono i suoi autori di riferimento?
«Napoli è l’unica grande città d’Italia e forse d’Europa con una squadra sola. Il motivo c’è ed è un motivo forte ed evidente. Napoli e il Napoli si riconoscono, si assomigliano. Sono capaci di grandi imprese, di sconfitte epiche e anche di epiche vittorie. Sono azzurre entrambe: è indiscutibile che Napoli sia azzurra come città, così come anche la maglia della squadra. È molto difficile essere tifosi di Napoli senza essere tifosi del Napoli. Il processo identitario è enorme. Io sono prima tifoso del Napoli che essere umano. Penso che nella mia natura venga prima essere tifoso del Napoli e poi padre, figlio, scrittore, marito, quello che vuole. Sono innanzitutto tifoso del Napoli. Per quanto riguarda i modelli, potrei facilmente pararle dell’argentino Soriano o dell’uruguaiano Galeano o di altri grandi autori che hanno raccontato il calcio. Io ho voluto girare le spalle al campo. Ho voluto raccontare gli effetti del calcio sulle persone, le passioni che il calcio tende ad attivare. Sono racconti autobiografici, per la maggior parte, o che ho sentito da amici. Non sono scritti per avere successo: i gialli si scrivono per i lettori. Ma la scrittura dei racconti che riguardano il calcio, è autobiografia pura». 

Non ha pensato di rinverdire il genere con una nuova opera dedicata alla “Grande bellezza” del gioco “sarriano”? 
«Raccontare il calcio nel suo svolgimento non è giusto. Il calcio è così bello che va visto. Sarebbe come raccontare la danza. Nel caso di Sarri ancora di più: è talmente bello il gioco del calcio che non ne valeva la pena, lo si deve guardare. Magari ne racconteremo, prima o poi, la grande cavalcata e questo meraviglioso secondo posto che tanto amaro in bocca ci ha lasciato, ma tanta consapevolezza di essere stati più belli degli altri». 

Facciamo un gioco. Mi dica cosa preferisce.Il gioco di Vinicio o quello di Sarri? 
«Sarri». 

Careca o Cavani?
«Careca». 

Insigne o Lavezzi? 
«Lavezzi». 

Ancelotti o Benitez? 
«Pari, forse Ancelotti» 

Ferlaino o De Laurentiis? 
«Ma che domande fa? (ride ndr.) non me lo chieda più!»

Maradona o Messi?
«Chi? Chi è Messi?».