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Russiagate e plotone d’esecuzione per Salvini

Opinionista: 

Il Russiagate in sedicesimo – quello originale si occupa dell’elezione dello sgradito Trump – che sta agitando in queste ore il sonno di Matteo Salvini, sino a qualche giorno fa leader indiscusso della politica italiana, ha qualcosa di sinistro. Il fatto è, nella sua essenzialità, abbastanza semplice. Si sospetta che la Lega abbia tentato d’assicurarsi cospicue fonti di finanziamento illecite attraverso una commessa di petrolio che una società russa avrebbe dovuto fornire ad una italiana (forse l’Eni, che però ha smentito). Una vicenda come tante altre ce ne sono state e sempre ce ne saranno. C’è tutto un personale che vi lavora e lavorerà costantemente. Solo che in questo caso l’incontro tra presunti emissari della Lega – Gianluca Savoini ed altri non identificati, per il momento – è stato compiutamente documentato per i posteri (ed i contemporanei), da non si sa chi. Ed è poi stato offerto alle stampe. La Procura di Milano ha prontamente aperto un’indagine, prim’ancora che la cosa impegnasse stabilmente le prime pagine dei giornali, ipotizzando corruzione internazionale: vale a dire dei funzionari russi (la cui moralità ci è evidentemente molto a cuore) ed ormai la frittata è fatta. È possibile che Salvini, causa Savoini, ci rimetta le penne politiche e così un'altra promessa della nostra politica andrà in fumo, in attesa del successore. Perché a me sembra questo il vero problema italiano. Non riesce a formarsi un riferimento politico – Matteo Salvini non è quello che più mi sarebbe aggradato, ma io non voto e non posso parlare – che già c’è pronto un nutrito plotone ad organizzarne l’esecuzione. Caduta la cosiddetta prima Repubblica a mano giudiziaria, questo rito ancestrale dell’incenerimento alla bisogna del capo tribù qual capo espiatorio, ha accompagnato ogni successivo leader politico. Cosicché può dirsi che – almeno nei suoi momenti critici – il nostro sistema politico non è mutato in alcunché. A scansare il sacrificio giudiziario sono stati solo i personaggi che spessore politico non hanno avuto: Dini, Ciampi, Monti, Gentiloni; Prodi – a metà tra il burocrate ed il politico – ha pericolato. Ma accomunati ad una sorte sono stati tutti qui soggetti che – nel bene e nel male, categorie peraltro sostanzialmente estranee alla dimensione politica, che si caratterizza per l’efficacia nel comando – sono riusciti ad affermarsi in uno spessore, politico appunto. E non grazie ad un apparato burocratico che li ha sostenuti, bensì soprattutto in virtù di alcune doti personali, se non proprio carismatiche, certamente di forte personalità. Le tre personalità in questione sono, in sequenza, Silvio Berlusconi, Matteo Renzi, Matteo Salvini. Il secondo, inizialmente prodotto d’apparati, ma poi con l’ambizione di fondare su di sé il proprio successo politico. E lì si giocò (almeno per il momento) la sua storia. Il problema è che tutti e tre sono stati messi sotto attento esame dalla Magistratura italiana, attraverso mezzi d’indagine di notevole invasività (Berlusconi si arrivò a controllarlo nei sotterranei della propria Reggia, durante feste eleganti) ed in un gioco di rimbalzi tra Procure, Servizi, informatori ed oscure situazioni, sottoposti alla gogna e costretti all’esilio (politico, per Craxi fu più concreta la cosa). Non mi risulta ci siano precedenti d’un paese occidentale in cui quattro consecutive generazioni politiche (da noi: prima Repubblica, Berlusconi, Renzi, ora Salvini) siano state decimate e ridotte all’obbedienza per via giudiziaria o comunque con gran sponda giurisdizionale. Non che il fenomeno sia nuovo, la Magistratura d’ogni luogo – di recente è accaduto in Brasile, ma i casi storici son numerosi – s’è prestata ad operazioni politiche ed al servizio di poteri vari. Ma il fenomeno italiano ha le sue peculiarità: perché, a quel che si deve osservare, pare non ci sia leader politico che si provi ad affermare la propria personalità, che non meriti le attenzioni occhiute del potere giudiziario. È facile rispondere che se i politici non commettessero reati non avrebbero nulla da temere. Ma possibile che siano, in tutta Europa, quelli italiani i più reprobi, gli uomini pubblici più afflitti dalla coazione a ripetere? Possibile che solo nel Belpaese, ad esempio, i partiti necessitino di finanziamenti per lavorare e vincere le elezioni? Io sono portato a dubitarne. Gli ultimi mesi ci hanno mostrato una Magistratura in cui operano – sino ai suoi massimi livelli – schemi d’azione e forme di potere non troppo diverse da quelle che si registrano – e s’intercettano – quando si indaga su formazioni che quella Magistratura stessa assicura, come suol dirsi, alla giustizia. Abbiamo dovuto ascoltare un magistrato addetto alla Direzione Antimafia che, parlando di suoi colleghi, è giunto a configurare la necessità d’ucciderli, salvo poi a fornire subito dopo un’interpretazione autentica dell’espressione, che sostanzialmente scioglieva in metafora da colletti bianchi, ispirata a quanto in altri ambienti si verifica operando direttamente sul corpo. Io non ho a disposizione tutto quanto servirebbe per giudicare a pieno (questo è privilegio degli storici), però due abbinamenti semplici so farli, anche perché la storia della giustizia è purtroppo il mio mestiere di studioso. E l’ambiente italiano davvero suscita serie preoccupazioni.