Avevo sedici anni. Ero una ragazzina dal volto largo e dagli occhi a volte smarriti ma in quell'estate dell’ottantadue mi ero sentita felice come mai prima.Mi ero trovata all’improvviso immersa nel primo amore. Lo avevo incontrato nel parco pubblico dell'isoletta delle mie vacanze, l'aria intrisa dei profumi di zucchero filato e noccioline. Un’amica mi aveva portato alla rotonda, nel giardino pubblico; ogni giorno ci fermavamo lì a chiacchierare con “gli altri”. Un pomeriggio lui si era avvicinato, mi aveva chiesto come mi chiamassi, se fossi nuova del gruppo e si era presentato: Nicola. Avevamo iniziato a parlare. Non sapevo allora che quella era l’alba di una cosa che si sarebbe poi rivelata per me fondamentale né che qualche anno dopo mi sarei trovata a ricordare come lo avessi usato molto spesso, quell’aggettivo, in quel tempo, parlando con le amiche la domenica mattina. Il giorno del bacio era stato il più bello. La sera prima, nel posto del solito appuntamento, avevo ostentato noia. «Cosa vorresti fare?» aveva chiesto. «Mah… non so, qualcosa - avevo risposto – in quest'isola non c'è mai niente da fare…». «Potremmo andare al mare, conosco un posto davvero bello». E così, ci eravamo organizzati, di nascosto dai miei genitori, in auto, un pomeriggio. Il posto era una piccola rada, il sole era quasi al tramonto, c’eravamo solo noi due. Lui mi aveva mostrato la rosa dei venti, io mi ero ferita un dito con un riccio, il sangue sulla camicetta, poi mi aveva messo la testa sulle gambe e ci eravamo baciati, delicatamente. Mi era parso che in un secondo una stella avesse illuminato il mio corpo di adolescente instabile, per piazzarsi nel petto e mandare luce propria. Erano seguiti quattro giorni di assoluta soddisfazione. Non riuscivo quasi più a ingurgitare cibo, ero dimagrita e il volto tondo si era fatto affilato. Nelle Polaroid dell’epoca mi vedo ancora oggi trasognata. In quei giorni memorabili mi era sembrato di comporre un insieme di due, di avere trovato uno specchio nuovo. Poi la separazione. Era giunto il momento della partenza, lui doveva rimanere lì, ci lavorava, e io ero rientrata con la famiglia in città. Le vite del tempo non conoscevano la telefonia cellulare: ci si mancava davvero, i pensieri spaziavano sulle stesse immagini, ripetute nella mente come fotogrammi. La mia richiesta di luce pian piano si era frantumata sul cibo, che di frequente abbrancavo; avevo recuperato tutti i chili persi e, anzi, ne avevo guadagnati parecchi in più. Ero diventata grassa, una ragazzona. I capelli pendevano dritti e senza forma. Insieme alla mancanza di lui, vi era la presenza del cibo: divorato, non solo mangiato, bulimizzato attraverso il frigo spesso aperto per sedare il dolore. Anche la notte lo andavo a saccheggiare, nel ricordo di una voce che si faceva sempre più flebile, di un volto sbiadito. La postura era andata mutando, da alta e dritta che ero sempre stata mi stavo lentamente trasformando in una ragazzina stretta di spalle, curva. Diluivo l’attesa del cuore agitato attraverso il pensiero di un segno che non arrivava. Non potevo chiamarlo, non aveva un recapito fisso. Dopo un mese dal rientro e una veloce telefonata interurbana, dalla conversazione incerta, era giunta la sospirata cartolina: Come stai ? Qui tutto apposto. L’errore ortografico campeggiava sul retro della bellissima immagine dell'isola. Mi resi conto che lo conoscevo pochissimo. L’amore pian piano naufragò nel mare lucente della cartolina, la scuola ricominciò e il frigo – finalmente - si chiuse.

(L'opera in foto è “Salmastra" di Carla Viparelli)

Ci mancano i baci, gli abbracci, le carezze? E persino i “paccheri” e i pizzichi? Le parole, con la loro magia, possono restituirceli attraverso un racconto. La strategia è vecchia ma sempre valida, quella del nostro Boccaccio: dare spazio alla fantasia e narrare una storia al giorno, così la quarantena sembrerà più breve. Dopo il Decamerone è tempo di scrivere il “Quarantenamerone”: saranno i lettori, con i loro racconti, a farlo inviando il loro scritto all'indirizzo armida.parisi@ilroma.net. Due i vincoli: la lunghezza e l’argomento. Il racconto dovrà essere lungo tremila caratteri, spazi inclusi, e ispirato al tema “Baci, abbracci, paccheri e pizzichi”. La redazione selezionerà i migliori e li pubblicherà sulla pagina culturale del quotidiano e sul sito, dove il testo è arricchito dalla riproduzione di un’opera dell’artista Carla Viparelli in sintonia con il tema proposto.