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Il dilemma insoluto del nostro epilogo

Opinionista: 

La morte non ha aggettivi. Racchiude nella sua definizione unica il postulato intrinseco che non ammette deroghe, ulteriori infioramenti. Invischiati in quella melassa di formalismi inutili che il palcoscenico della vita ci ammannisce, in quella continua rincorsa a dare un senso terreno e circoscritto alle stagioni della vita, insistiamo con pedissequa protervia a dare uno scopo alla fine della nostra esistenza. Assecondando i nostri trascorsi culturali, i nostri concetti etici, religiosi, politici, di volta in volta definiamo la morte come buona, dolce, semplice, tragica, dolorosa, giusta o ingiusta, dignitosa, eroica, incomprensibile, prematura, e quant'altro ci passa per la mente, adusi a quel malcostume di vanità esegetica che infetta più o meno tutti noi. Ma in realtà è un'esigenza atavica che pervade il nostro essere sensibili a quel terrorismo dell'ignoto che la parola, un tempo impronunciabile, evoca sin dalla nascita. Si muore per amore, si muore per odio. Marco Pannella ci lascia il suo addio, anche se si può essere in disaccordo con il suo vissuto non si può disconoscere che ha avuto una vita d'amore per gli amici, per i suoi avversari o nemici, per una società che ha contribuito a migliorare con le sue battaglie, e non andiamo oltre, perché non ci piace ingrossare quella miriade di commenti che, come aveva previsto con un'ultima battuta ironica, si stanno moltiplicando ed esaltando in una gara di tipica autoreferenza giornalistica. Si continua a morire per odio. L'aereo EgyptAir scoppia in volo con 66 persone a bordo e ci ricorda che il terrore della morte è ormai soppiantato dal terrore della vita, dalla paura dell'ignoto, del vicino di casa, di un futuro prossimo oscuro, che si rafforza in questi giorni di muri respingenti, di barriere antiche e di sconfinamenti aerei da guerra fredda: l'era digitale e supertecnologica ci sta filtrando in tempo reale il fanatismo religioso ed etnico, la mostruosa diseguaglianza di welfare e di economia fra interi continenti e pochi Stati egemonici, consegnandoci un pericoloso alibi per sovvertimenti globali ancora da ipotizzare. A Caivano, come in altre civili ghettizzazioni di Stato, in agglomerati suburbani, dal ritmo ciabattante e criminale degno delle peggiori favelas, ai confini metropolitani di una città che ti uccide fin dalla nascita, i bambini violentati volano via e muoiono, vittime dell'abiezione più infame, e di quel silenzio omertoso che condanna coloro stesso che lo praticano ad essere dimenticati: si muore anche così, giorno dopo giorno, e non c'è aggettivo che valga. Si muore a Napoli per incapacità e per insipienza politica, nonostante la cultura si agiti in un supremo sforzo di sopravvivenza e di empatia popolare. Non abbiamo voluto, finora, partecipare ai commenti sulle Amministrative, perché lo stress mentale arrecato da questa kermesse di populismo e baggianate a buon mercato, offende la nostra intelligenza. Ma il pericolo di una morte amministrativa, civica e sociale di Napoli, che sembra presentarsi immanente ed impietosa dopo il prossimo voto, ci preoccupa. Vincerà de Magistris? Sembra proprio di sì. Il Masaniello dalla bandana arancione dovrebbe succedere a se stesso, con l'unica novità dell'ingiuria e il turpiloquio come pamphlet di moda, da pescivendolo appunto, senza offesa. Ma gli altri? I contendenti che racimolano insieme, sì e no, un 30% di consensi, chi sono, qual è la loro storia, quale curriculum di concreto spessore presentano? Il Pd napoletano imbarca sulla sua scialuppa l'Ala volante di Verdini, il M5S è già dilaniato dalla paura di una vittoria troppo presto annunciata, e a destra Gianni Lettieri spera nel ballottaggio. Napoli merita più di questa cosiddetta "classe dirigente politica", perché essendo eterna nella sua passione e nella sua storia, non può morire, anzi ha bisogno urgente di rinascere, come l'araba fenice, dalle sue ceneri, e senza aggettivi.