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La magistratura in Italia continua a deragliare

Opinionista: 

Che i magistrati se le dessero di santa ragione in trasmissioni televisive, fino a ieri sarebbe stata esperienza inedita. Fino a ieri. Perché dopo la Piazza Pulita della scorsa settimana, anche questo è toccato di vedere. È il segno che la misura è colma. Il potere di cui ha goduto l’ordine giudiziario in Italia, sicuramente è stato senza pari. E questo ha consentito ad esso di fare ciò quanto ha voluto. Nessuno è stato in grado di contrastarlo in alcuna sede, tutti l’hanno temuto (ed ancora a ragione lo temono), non meno di quanto il cittadino possa temere la mafia. Ma soprattutto, a temerlo è stato il ceto politico. Sino agli anni Ottanta del secolo scorso, le élites al potere non avevano di che preoccuparsi. Se non proprio l’intera magistratura, almeno i suoi vertici erano docilmente a disposizione della classe dirigente. Posto sotto la direzione del suo vicepresidente, di norma un democristiano di sicura fede, il Csm distribuiva i più alti uffici della giurisdizione, esclusivamente a beneficio di magistrati di provata riconoscenza. Questa perfetta intesa è andata via via dissolvendosi, per vario ordine di ragioni legate, potremo dire, all’andamento dei tempi che hanno dato voce a segmenti della società, una volta del tutto esclusi dai luoghi in cui le decisioni venivano prese. Alla magistratura, però, è rimasto di corredo quel regime di totale immunità, che le era stato accordato dalla Costituzione del 1948, quando essa era strumento totalmente allineato ai detentori del potere politico, che da essa nulla di male potevano aspettarsi. In sostanza, quando i giudici hanno cominciato ad attaccare i centri decisionali, hanno anche goduto di prerogative rimaste intatte, ma provenienti da un sistema politico al quale fino a quel momento si era dimostrata fedele. È molto per queste ragioni che i magistrati in Italia hanno potuto letteralmente smontare la classe politica che sino all’inizio degli anni Novanta aveva guidato il Paese. Accade a chi “tradisce” il coglier di sorpresa, con i relativi vantaggi. Il problema è che, così facendo, hanno anche assunto, obiettivamente, un ruolo politico. I ruoli politici, infatti, non li assegna la legge, ma si acquistando sul campo, esercitando il potere che convenzionalmente si definisce politico. Il potere di decidere chi è chiamato a decidere e quindi il potere di decidere. Questo potere è quello che hanno esercitato ormai per troppo lungo tempo – in modo espresso, ma più spesso occulto – uomini dell’apparato, uomini cioè che nulla hanno mai avuto da condividere con la rappresentatività popolare. E questo potere si è progressivamente concentrato in Italia nelle magistrature, in particolar modo in quella inquirente penale, forte della possibilità di decidere del futuro di troppe persone, godendo di credibilità di ruolo, e senza la necessità di dover render conto a nessuno del proprio operato. Ma nessun processo politico si svolge senza che si verifichino reazioni. I sistemi politici – tutti – hanno bisogno d’elementi di equilibrio altrimenti, per quell’incontinenza che è in generale propria delle aspirazioni umane: tendono a deragliare. E la magistratura in Italia ha deragliato. Rimasta incontrastata per l’incapacità e la debolezza di ogn’altro contraltare: amministrazione pubblica corrotta ed insignificante, università sempre più ignara e chiusa in proprie logiche che l’hanno delegittimata sul piano culturale (quello suo proprio), politica caduta nel più greve populismo, riferimenti religiosi, sempre meno influenti. I giudici, in fin dei conti, dispongono del potere che nell’immediato è il più incisivo, quando mancano prospettive di respiro: possono inviare i gendarmi dentro casa, prelevarti e metterti in prigione. O possono spogliarti del patrimonio. Non proprio nuge. Non sono richiesti nemmeno gran studio ed intelligenza: questo potere si esercita e basta, senza troppo star lì a pensarci. Tutto ciò ha finito col montar loro la testa ai nostri giudici e dar loro quell’inebriamento che deriva dall’impunità, soprattutto per persone che non hanno troppo dovuto battersi per ottenere tanta posizione: in fin dei conti, s’è trattato di lavorare ad un concorso, mandare a mente qualche libro, soprattutto iscriversi ai giusti corsi di preparazione. E di qui, crollo d’ogni idealità, identificazione con la conquista degli uffici di maggior visibilità – importanti Procure della Repubblica, innanzitutto – deprivazione del senso del limite. Sino alla tracotante idea che i problemi si sarebbero risolti, facendo fuori Luca Palamara, vale a dire il magistrato che meglio d’ogni altro aveva saputo dar forma alle aspirazioni dell’ordine al quale apparteneva. L’enorme mole delle corrispondenze cui doveva tenere testa – quelle poche che un mesetto di troian ci hanno trasferito, non ne sono che una pallida testimonianza – costituiscono la prova indelebile del degrado morale e però anche giuridico nel quale è precipitata la nostra giurisdizione: il luogo cioè che in ogni Stato ha come compito esclusivo e connotante, il culto della regola e la sanzione contro chiunque la violi. Ma l’autoreferenzialità è autoreferenzialità, rende ottusi, impedisce di comprendere, reca l’illusione che semplicemente guardando in se stessi le cose possano tornare ad essere come si gradisce siano. Di qui le scene miserevoli scene televisive: andata in frantumi la coesione interna di quel mondo autoriferito e dunque malato, si tenta di correre ai ripari rivolgendosi all’opinione pubblica. Ma chi è aduso a guardare esclusivamente al proprio interno, al punto di formarsi un proprio parlamentino (il Csm), quando d’improvviso s’affaccia alla finestra per mostrare le sue fattezze e chiedere consensi, non può che mostrare la faccia gracile e spesso valetudinaria, di chi per troppo tempo non ha respirato aria pura.