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Magistrati e politica, un rapporto irrisolto

Opinionista: 

Dopo il caso Minzolini, si è riacceso il dibattito sul rapporto tra politica e giustizia, tra istituzioni parlamentari e magistratura. Ogni volta in cui si manifestano turbolenze in questo rapporto, si rispolverano vecchie e nuove proposte di riforma. Io credo, però, che si tratti di un problema che va al di là del pur importante nodo irrisolto del ruolo dei magistrati che si fanno politici e che tornano, dopo la parentesi della rappresentanza parlamentare, ad indossare la toga. Si tratta, piuttosto, di una ulteriore manifestazione di ciò che in molti hanno definito come “disagio” della democrazia. Il primo sintomo di essa è, senza dubbio, la progressiva perdita di credibilità e di fiducia da parte dei cittadini nelle istituzioni della democrazia rappresentativa. A ciò bisogna aggiungere il progressivo svuotamento del ruolo delle istituzioni parlamentari provocato dalla centralizzazione leaderistica e dal diffondersi di ideologie presidenzialistiche che non appartengono alla cultura politica del nostro paese, almeno a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale. Questo provoca la progressiva dissoluzione di uno dei cardini della democrazia rappresentativa e cioè il legame tra eletti ed elettori. Vi è in atto un processo di deresponsabilizzazione del rappresentante in molti casi non eletto ma nominato dalle élites dei partiti. La conseguenza di tutto ciò è il graduale processo di progressiva trasformazione radicale della forma partito che sta subendo una metamorfosi che ne fa da luogo di discussione ed elaborazione di progettualità politiche un supporto alla dimensione leaderistica dei capi partito e dei capi corrente. Tornando ora al problema delle toghe impegnate in politica, sembra che si voglia dare una accelerazione alla legge che introduce una nuova disciplina che fissa precise norme in materia. Come tutte le questioni cruciali che riguardano il necessario rafforzamento e la riforma degli istituti democratici nel nostro paese, anche per questo problema si aspetta l’ennesimo evento mediatico o la crisi di un modello politico (è il caso del clamoroso fallimento della riforma costituzionale renziana) per ricordarsi che c’è, ad esempio, una legge ferma in parlamento da quattro anni o che è diventata urgente e non più rinviabile una riforma della legge elettorale. Nel caso dei magistrati in politica le proposte mi sembrano ragionevoli: divieto di candidatura dei giudici nella circoscrizione o nella provincia in cui hanno operato negli ultimi cinque anni; rientro in servizio in distretti diversi da quelli in cui si sono candidati; chi non viene eletto potrà tornare al suo posto ma non potrà esercitare nella circoscrizione nella quale si è candidato. Non siamo dinanzi a chissà quale grande rivoluzione, ma semplicemente a un tentativo di essere coerenti – come ha giustamente sostenuto Sabino Cassese – con Montesquieu e la teoria della separazione dei poteri e degli ordini. L’illustre giurista e già giudice della Corte Costituzionale, però, non si limita a questa osservazione, ma sostiene giustamente che a partire dal 1992 si è creato nel nostro paese uno squilibrio che ha coinvolto il rapporto politica- giustizia, creando l’abnorme situazione di una magistratura che detta, con le sue azioni giudiziarie, l’agenda alla politica e provocando l’altrettanto abnorme disattenzione della politica verso i propri compiti, distratta, com’è, dall’attivismo giudiziario e dal potere mediatico.