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Vicende napoletane: assunzioni sospette

Opinionista: 

Le poco commendevoli cronache di queste ultime settimane ci parlano d'assunzioni clientelari che avrebbero avuto al centro la regia di due assessori regionali, quello niente di meno che al Lavoro, Severino Nappi e quello alla Cultura, Caterina Miraglia. Entrambi, per di più, docenti universitari, di professione, quindi educatori e quindi di cultura, presumibilmente, superiore alla media. Il primo novero di contratti contestati, avrebbe avuto una genesi più schiettamente politica, secondo sospetti alimentati da una singolare e poco probabile concentrazione di seguaci del partito dell'assessore Nappi, tra gli assunti all'Agenzia regionale per il lavoro. Il secondo caso, invece, sarebbe colorato da tratti più spiccatamente familistici e sarebbe avvalorato dalle modalità singolarmente concentrate e discrete che avrebbero caratterizzato lo svolgimento delle procedure concorsuali per la selezione d'una quindicina di contratti a tempo indeterminato, attivati dall'un tempo glorioso Teatro Mercadante. Come sempre, in questi casi, sino a quando non interverranno verdetti della Magistratura – che, si legge, sta già acquisendo atti e perciò indagando – non possono raggiungersi conclusioni o almeno non se ne può scrivere in termini conclusivi. Resta però il fatto che ciascuno può farsi un'idea delle cose, secondo massime dell'esperienza ed essere indotto a deprimenti considerazioni. Perché sarà anche vero che a quando non c'è una prova raggiunta nel processo, manca anche una verità ufficiale. Ma l'uomo, come scriveva già oltre un secolo fa uno dei più geniali filosofi ed epistemologi mai vissuti, Charles Sanders Peirce, l'uomo è un essere dotato d'una connaturata abitudine ad indovinare, a formulare ipotesi che si rivelano alla prova dei fatti più spesso fondate che no anche quando non disponga di tutti gli elementi necessari per decidere con certezza. È del resto questa la ragione per cui, come si sa dai tempi in cui Plutarco lo tramandò, della moglie di Cesare nulla deve potersi dire; perché chi occupa una pubblica funzione non è un tal qualsiasi, bensì soggetto che gestisce interessi generali e molte risorse, non in nome proprio, bensì in quello della comunità alla quale appartiene. E l'unico, serio fondamento legittimante che può darsi alla sua delicatissima azione, è nella fiducia pubblica da lui riscossa. Un meccanismo, quello della fiducia, assai delicato e pronto a frantumarsi, perché basato su d'un giudizio collettivo assai fragile e maturato più su presentimenti ed intuizioni – quella che pocanzi chiamavo capacità umana d'indovinare – che su razionali e verificati elementi di fatto. Fa parte del gioco pubblico: dove al cittadino non è dato di sapere cosa si consumi nelle stanze del potere – e forse è un bene. E dove quindi egli può farsi i suoi convincimenti solo attraverso presunzioni indiziarie ed ipotesi di buon senso. Ma al buon senso – a ragione od a torto – ripugna ravvisar la buona fede, là dove si verifichino concentrazioni d'adepti in infornate d'assunti, non plausibili alla prova del calcolo probabilistico – quello sul quale fonda la scienza moderna; ovvero quando familiari ed amici vengono selezionati in procedure la cui tenuta al cospetto del criterio di trasparenza rischia di far andare in mille pezzi l'antonomastica, quanto poco attuata casa di vetro. Tanto più che se simili notizie prendono così robusta costituzione, all'uomo indovino vien da pensare che qualcuno qualcosa dovesse pur sapere: e che, se pur non l'- ha fatto trapelare per nobili ragioni, una sua base deve comunque averla avuta. Per non parlar di quel cui fa pensare il sindaco de Magistris che, con la consueta tempestività e coerenza, ha addirittura sbattuto fuor della porta il suo rappresentante nel Mercadante, nonché presidente di quell'ente. Naturalmente, tutte queste sono illazioni ma di illazioni pur si vive. Ed in una tale congiuntura storica, sono proprio le circostanze sospette che andrebbero evitate. Perché le istituzioni hanno come non mai bisogno di credito, non di discredito, in quanto sono chiamate per le ristrettezze dei tempi, non ad elargire ma a sacrificare, non a dispensare ma ad imporre rigore in vista d'un domani migliore. E chi chiede rigore – in un settore per di più delicatissimo come il lavoro – deve porsi su d'un piano d'indiscussa autorevolezza. Cosicché, certe cose dovrebbe vigilare perché non avvenissero; e se fossero avvenute a sua insaputa – come sempre con maggior frequenza pare accada al nostro ceto politico – dovrebbe esser lui il primo ad indagare, verificare e dar contezza degli esiti. Sono questioni scontate ed è perciò tanto più sorprendente – si fa per dire – che qui non s'intendano. E poi, alla vigilia del rinnovo del Consiglio regionale, ad una cittadinanza rispettata dovrebbero rendicontarsi risultati, precisi e documentati, nonché proporsi progettualità puntuali, arricchite dall'esperienza che cinque anni di gestione avrebbero dovuto consolidare, consentendo di mettere a punto programmi avanzati e plasticamente aderenti alle esigenze. Ed invece, queste miserie accompagnate dalle lunghe polemiche di mero potere su candidature calate dall'alto o ispirate da una base confezionata alla bisogna. Insomma, un quadro che ricorda più una maschera di democrazia primitiva, che non un contesto d'istituzioni maturate nel loro fecondo rapporto con la società.