È civilista, patrocinante in Cassazione, specializzato in Diritto dei Minori e in Diritto Matrimoniale, con studio in piazza Leonardo. Alessandro Senatore (nella foto) è autore della raccolta di poesie “Volevo scriverti frasi d’amore” e del romanzo “L’anarchico elegante”. È alle stampe la seconda raccolta di poesie dal titolo “Per non sentirsi soli”. Ama scrivere e collabora come commentatore con “Il Corriere del Mezzogiorno”. È appassionato di storia e politica. «Sono nato al Borgo Sant’Antonio Abate, “’o buvero”, e ne sono fiero. Mio padre era il medico di questo quartiere popolare ed era voluto bene da tutti. Lì è nato il mio amore profondo per Napoli che, nonostante le sue contraddizioni, non ho mai voluto lasciare».

Dove ha studiato?

«Alle elementari ho frequentato la “Dante Alighieri” e ho avuto la fortuna di avere un grande maestro: Gaetano Iamarco. Mi chiamava “il bambino del perché”. Non potrò mai dimenticare la condizione di povertà in cui vivevano alcuni miei compagni di classe e l’avere avuto a che fare con bambini che oggi definiremo problematici; è stata per me una scuola di vita. Poi ci trasferimmo all’Arenella e le medie le ho fatte alla “Nicolardi” che al tempo era a via Conte della Cerra mentre il liceo classico al “Gian Battista Vico”. Ero in sezione “E” e la mia classe fu smembrata. Ricordo la rabbia e la tristezza che provammo quando fummo suddivisi nelle varie classi dopo due mesi di lotta. Al contrario di oggi, tra noi ragazzi c’era una grande solidarietà e i miei migliori amici sono i vichiani di allora. Ebbi la fortuna di capitare nella sezione “A” dove conobbi Giovanna Romano. Ci fidanzammo che avevamo 17 anni e poi ci siamo sposati. È una donna eccezionale, sensibile, intelligente, è ricercatrice alla Stazione Zoologica Dohrn. Abbiamo due figli, Marco e Claudia, che ammiro per la loro capacità di essere se stessi, in un momento così difficile per i giovani e di cui siamo molto orgogliosi».

Al “Vico” fece la sua prima esperienza di politica attiva. Quale fu la spinta?

«Generalmente nei ragazzi di 16-17 anni c’è voglia di cambiare il mondo e di essere protagonisti del proprio futuro. Ma oltre a questa idea, fin da bambino delle elementari, e ancor più da adolescente, ero contro qualsiasi forma di ingiustizia, di disuguaglianza e differenziazione sociale. Non ero capace di essere felice vedendo gli altri soffrire. Questo mio “sentire” ha sotteso tutta la mia vita e ha ispirato ogni mia decisione sia sul piano umano che professionale. Ai tempi del liceo ero convinto che la politica fosse il sistema migliore per aiutare il prossimo. Erano gli anni dell’ascesa del Pci di Berlinguer e chi voleva rinnovare il paese aveva in quel leader e nelle sue idee un grande punto di riferimento. M’iscrissi alla Fgci e fui eletto rappresentante d’istituto. Ricordo che, quando giunse la notizia del rapimento di Aldo Moro, il preside invitò noi rappresentanti d’istituto a convocare un’assemblea degli studenti per garantire che almeno tra noi fosse mantenuta la calma in un momento in cui la tensione era altissima e si temevano gravi disordini».

Che ricordo ha del metodo didattico della scuola di quegli anni?

«Al di là di qualche professore che ricordo con affetto direi che la mia esperienza scolastica non è stata esaltante. Penso che nella scuola c’è una tendenza diffusa a un livellamento in basso, all’uniformità. È un sistema che non stimola il singolo studente a dare il meglio di sé e questo comporta che i ragazzi finiscono gli studi senza avere indagato né coltivato le proprie potenzialità».

Un padre medico e una madre professoressa di lettere. Perché dopo la maturità classica scelse giurisprudenza?

«Non ho mai pensato di fare il medico tantomeno il professore di scuola. Dai tempi del ginnasio mi sono sentito sempre e solo avvocato, perché vedevo quella professione come massima espressione della cultura napoletana e come “voce” autorevole e, quindi, incisiva e determinante per cambiamenti sociali tesi a forme sempre più civili di convivenza umana».

Durante l’Università studiava solo oppure cominciò a fare qualche esperienza lavorativa?

«Lasciai la politica attiva e mi affacciai al mondo del lavoro come agente assicurativo dell’Unipol perché volevo essere economicamente autonomo. Non ne avevo bisogno, ma era una mia intima esigenza. Oltretutto con i guadagni potevo finanziare anche l’hobby della fotografia che condividevo con Giovanna. Era iscritta a biologia ed era molto brava nella preparazione dei prodotti chimici necessari per lo sviluppo che usavamo nella camera oscura che avevamo creato tutta per noi. All’epoca si usava il bianco e nero ed ero affascinato dagli sguardi e specializzato in ritratti».

Dove ha iniziato la pratica forense?

«In famiglia non c’erano avvocati e, grazie a mio fratello Ignazio, ebbi la possibilità di iniziare presso lo studio Di Criscio-Di Celmo-Mantovani i cui titolari erano suoi amici. Dopo cinque anni fui chiamato dal Prof. Vincenzo Sparano che mi offrì l’opportunità di lavorare per il suo studio. Quegli anni sono stati per me di grande crescita professionale. Giovanna e io decidemmo di sposarci. Avevo pochi clienti, erano quelli che avevo coltivato come agente Unipol mentre lei, giovane laureata in biologia, era borsista alla Stazione Zoologica Dohrn e contribuiva al menage familiare con il suo guadagno di 400mila lire. Sono un combattente e m’impegnai da subito per incrementare la mia clientela con la quale ho sempre amato stabilire un intenso rapporto personale».

Quando si mise in proprio?

«Nel 1992 decisi che era giunta l’ora di aprire il primo “Studio Legale Senatore” a piazza Medaglie d’Oro 27. Quello fu un anno di svolta e di grande fermento. Avevo 33 anni, dopo Marco stava per nascere la mia seconda figlia Claudia e avevo ripreso a frequentare l’Università per specializzarmi in diritto della Comunità Europea alla Facoltà di Scienze Politiche».

Perché proprio questa specializzazione?

«Ho sempre avuto chiara l’idea che i problemi dell’avvocatura si risolvono a livello internazionale perché si fa sempre più forte la tentazione dei governi di ridurre gli spazi di libertà e le tutele dei cittadini così come la volontà di sottoporre i diritti alle logiche di mercato riducendoli allo stato di una merce. Decisi, perciò, di viaggiare per tessere relazioni con gli ordini degli avvocati di altri Stati. Per una serie di circostanze, però, il primo viaggio lo feci con mia moglie oltreoceano: andammo a Cuba nel 1994 e fu l’occasione per realizzare un’importante iniziativa che mi riempie di orgoglio. L’isola era in pieno “periodo especial”, di profonda crisi economica, determinata dalla caduta del muro di Berlino e perché era stata abbandonata dai paesi del Comecon. Rimasi impressionato dalla dignità di quel popolo e decisi di aiutarlo. Dopo qualche anno fondai l’Istituto di Cooperazione e Sviluppo Italia-Cuba di cui sono presidente, e da allora organizzo eventi culturali e missioni economiche tra gli imprenditori campani e Cuba. Recentemente l’Ambasciata cubana in Italia mi ha conferito l’incarico di sviluppare le relazioni imprenditoriali con la Provincia di Santiago di Cuba. Inizierò appena la morsa della pandemia si sarà allentata. Sono anche il titolare di uno sportello che aiuta i cittadini italiani e cubani nel disbrigo delle pratiche consolari».

L’idea originaria, invece, quando si è concretizzata?

«Con l’incarico di responsabile delle relazioni internazionali conferitomi dall’Ordine degli Avvocati di Napoli. Per più di un decennio ho lavorato con questo obiettivo, non solo con i principali organismi internazionali dell’avvocatura, soprattutto la FBE (Fédération des Barreaux d’Europe) con la quale collaboro da anni anche come presidente della commissione arbitrale, ma anche con gli ordini professionali di alcune importanti città del mondo. Con il compianto avvocato Andrea Cafiero, realizzammo un gemellaggio con l’Ordine di Madrid, città che per secoli ha avuto stretti legami politici con Napoli. Dopo è stata la volta di Barcellona, Tunisi, Parigi, Istanbul, Rabat, Beirut in Libano. Ricordo che, unico occidentale, andai a Beirut per il congresso degli avvocati arabi nonostante le forti tensioni per la spaccatura che viveva il mondo arabo dopo la guerra del Golfo».

Questa sua attività ha raggiunto l’acme con la realizzazione di un importante documento. Quale?

«Il 16 marzo 2018 riuscii a far sedere allo stesso tavolo i rappresentanti dei più importanti organismi internazionali quali la FBE, la CCBE (Consiglio degli Ordini Forensi Europei), l’UIBA (Unione degli avvocati Iberoamericani), la Lega Araba e l’Uia (Unione Internazionale degli Avvocati) nonché i rappresentanti degli Ordini di Bruxelles, Parigi, Tunisi, Barcellona e Madrid per discutere e redigere il Secondo Manifesto di Napoli dell’Avvocatura».

Che cosa contiene?

«La denuncia, in 4 lingue, dei problemi della giustizia e degli attacchi del potere politico al diritto di difesa. Lo scrissi insieme agli avvocati Luis Martì Mingarro, ex Decano de la Junta de Gobierno del Ilustre Colegio de Abogados de Madrid e presidente dell’UIBA, e Michel Benichou, all’epoca Presidente del Consiglio degli Ordini Forensi d’Europa».

Quale sviluppo ha avuto?

«Nonostante rappresenti l’importante risultato di un impegno durato dieci anni e abbia avuto unanimi consensi dalle istituzioni forensi di tutto il mondo, lo ricordo con una tristezza infinita perché mi resi conto che tutto quel lavoro non era servito a nulla».

In che senso?

«Intorno a quel documento fu alzato un muro di gomma e ci fu l’indifferenza più assoluta da parte dei colleghi napoletani, che non seppero o vollero comprendere l’importanza di un progetto che avrebbe visto gli avvocati di Napoli guidare un movimento di lotta dell’avvocatura europea. I sacrifici e le rinunce, anche a guadagni professionali, che ho fatto per far conoscere e apprezzare l’avvocatura napoletana non solo in Europa, non sono stati apprezzati al punto che si è ritenuto di non rinnovarmi l’incarico, nonostante i risultati e miei ottimi rapporti internazionali».

In questo suo importante percorso quali personaggi a livelli internazionale ricorda in modo particolare?

«Oltre ai già citati Luis Martì Mingarro, con il quale mi recai a Bruxelles per illustrare alla Commissione Giustizia del Parlamento Europeo il Secondo Manifesto di Napoli, e Michel Benichou, voglio ricordare Michele Lucherini, allora presidente della FBE, Essid Abdelaziz con il quale organizzammo l’entusiasmante iniziativa di riaprire l’hotel Imperial di Sousse per dare un messaggio contro il terrorismo; e i due “napoletani”, Franzo Grande Stevens, anche lui vichiano, che mi onorò presentando il mio libro nell’aula magna del “Vico” e Vincenzo Siniscalchi, alta sintesi di avvocato e uomo di cultura».

Ricorda solo avvocati?

«No anche valide colleghe a conferma del valore fondamentale che la donna ha nella famiglia, nel lavoro, nella società e persone di cultura. Il mio pensiero va, in particolare, all’amico Eusebio Leal Spengler, Historiador de la Ciudad de la Habana, morto lo scorso mese di luglio. A questo insigne storico si deve, tra l’altro, il fantastico restauro del centro de“L’Avana Vieja”. Eusebio, entusiasta del mio libro “L’anarchico elegante”, mi regalò il sogno di presentare la sua versione spagnola, pubblicata dalla casa editrice dell’Oficina de l’Historiador Ediciones Boloña, all’Avana in occasione dei festeggiamenti per i 500 anni della fondazione della città. Dettò la presentazione del libro dal letto dell’ospedale dove era ricoverato perché gravemente malato. Mario Cremata, direttore della casa editrice, m’informò di questo suo nobile gesto e piansi per l’emozione».

Qual è, ad oggi, il bilancio della sua vita?

«Al di là delle amarezze provate, posso dire di essere un uomo realizzato sia nella vita privata, che in quella sociale e professionale. Ma poiché mantengo vivo e costante l’entusiasmo, ho ancora tante battaglie da combattere».