di Mimmo Sica

Giacinto Palmarini (nella foto) è un attore teatrale italiano, diplomato all’Accademia nazionale d’arte drammatica Silvio D’Amico. «Dopo la maturità classica, come succede in quasi tutte le famiglie borghesi, ero predestinato a seguire il solco di mio padre che è un ingegnere civile. Mi iscrissi, quindi, alla facoltà di ingegneria e ho fatto tutti gli esami del biennio. Contemporaneamente cominciai a frequentare i corsi di teatro e i laboratori perché avrei voluto fare il Dams».

Perché?

«Fin da piccolo ho avuto la passione per le arti e lo spettacolo. Quando ero adolescente trascorrevo i pomeriggi estivi davanti alla televisione a vedere i film classici, soprattutto quelli con Ingrid Bergman di cui ero letteralmente innamorato».

Come mai questa passione?

«Credo che fossi un predestinato. In famiglia c’era solo mia nonna materna che è stata una cantante lirica mancata, ma non per velleità. Aveva ricevuto proposte sia dal Teatro dell’Opera che dalla Rai, ma ai suoi tempi, negli ambienti moralisti piccolo borghesi, si pensava che una donna che faceva la cantante o l’attrice era una persona frivola e di dubbia moralità. Per questi motivi non accettò le proposte e rinunciò a intraprendere quella carriera».

Quando è salito per la prima volta su un palcoscenico?

«Non prestissimo, avevo 20 anni ed ero al secondo anno del biennio di ingegneria. Frequentavo un laboratorio di arte drammatica, “Spazio tre”, tenuto da Silvio Araclio,  una persona di grande cultura. Un giorno gli chiesi che cosa avrei dovuto fare per avviarmi al mestiere di attore teatrale. Mi rispose che sarei dovuto andare all’Accademia di Arte drammatica di Roma».

Accettò il suo consiglio?

«Ci pensai per una settimana, ogni giorno, continuamente. Era una decisione importante che avrebbe segnato per sempre la mia vita. Avrei arrecato un grande dolore soprattutto a mio padre che mi voleva ingegnere come lui. C’era poi l’incognita di come mi sarei mantenuto a Roma perché la rottura con la famiglia sarebbe stata inevitabile».

Quindi? «Sentii dentro di me una forte spinta che aveva poco di razionale e molto di emotività. Mi convinsi di essere realmente un predestinato e decisi di lasciare l’università e di tentare la strada dell’Accademia».

Perché proprio quella di Roma?

«L’Accademia Nazionale di Arte drammatica Silvio D’Amico è sicuramente la scuola più prestigiosa in Italia. Dopo viene Il Piccolo di Milano. Dipende direttamente dal Miur».

Lei voleva fare però il Dams?

«Esiste tra loro una differenza di fondo. Il Dams è un corso di laurea nato nel 1971, all’interno della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Bologna, e successivamente istituito in molti altri atenei italiani. Ha un carattere prevalentemente teorico. L’Accademia, invece, punta molto sull’insegnamento della recitazione. Alla Silvio D’Amico si sono diplomati i più grandi, da Gassman e Manfredi a Castellitto».

Le fu facile entrare?

«Le selezioni erano severissime. Su 900 candidati ne venivano presi 18. Il primo tentativo andò male. Al secondo risultai idoneo. Mi diplomai nel 1995 e iniziai una durissima gavetta».

Cioè?

«Facevo 7-8 spettacoli all’anno girando per tutte le “cantine” romane. Spesso non venivo neanche pagato ma mi andava bene così perché erano una palestra per imparare e una vetrina per farsi conoscere».

Che cosa sono le “cantine”?

«Degli spazi bellissimi, ben tenuti da persone che hanno anche una grande passione per il teatro. Si trovano in seminterrati e ospitano poche spettatori. Ai miei tempi  c’erano anche artisti, registi e qualche produttore. Esisteva ancora la possibilità, anche se rara, di essere notati da un “talent scout”. Così fu per me».

Ci racconti.

«Una sera venne a vedermi Marco Maltauro, pupillo di Giuseppe Patroni Griffi. Gli era succeduto come drammaturgo e regista nel Teatro Nazionale con l’impresario Paolo Donat Cattin. Recitavo in uno spettacolo molto particolare e divertente perché interpretavo 9 personaggi per cui mi cambiavo continuamente. Gli piacquii e mi volle nella sua compagnia. Con lui ho debuttato nel teatro ufficiale con “La vera storia dei Beatles” di cui era autore e regista. Poco dopo ho interpretato Trigorin ne “Il Gabbiano” di Cechov. Sono stato l’attore più giovane che ha vestito i panni di questo personaggio».

La vera storia dei Beatles lo ha consegnato al teatro pubblico. Ma prima del Nazionale non aveva mai recitato in teatro?

«Durante l’Accademia facevo degli spettacoli in teatro, soprattutto nella pausa estiva. Il primo in assoluto, tra i 120 che ho fatto fino a oggi, è “La locanda Hauser”, una drammaturgia scritta da Roberto Pacini su Guy de Maupassant. Ricordo un debutto alla Galleria Toledo a Napoli».

Ha conosciuto Patroni Griffi?

«Lo incontrai una sola volta al Teatro Nazionale. Mi voleva affidare una parte. Rifiutai perché era troppo piccola. Ci rimase male».

Lo rifarebbe?

«Con la maturità di oggi decisamente no».

Come funzionava per le compagnie il teatro sotto l’aspetto economico-finanziario?

«Allora vigeva la regola del 30/70. Il 30% degli incassi andava al teatro che ospitava la compagnia, il 70% alla compagnia, per cui questa non pagava nulla di tasca propria. Il rischio di un insuccesso gravava su entrambi».

Poi incontrò Daniele Salvo, allievo di Luca Ronconi.

«È stata un’esperienza molto importante e formativa. Sono stato il protagonista nell’“Eugenio Onegin” di Puskin, la sua prima regia. Poi ho fatto altri spettacoli tra cui “Re Lear”, “Giulio Cesare”, in diverse edizioni “Macbeth” ancora da protagonista. Il palcoscenico era quello del Globe Theatre il cui direttore è Gigi Proietti. La sua struttura ricostruisce filologicamente il Globe Theatre di Londra, il più famoso teatro del periodo elisabettiano, nel quale vengono messe in scena in modo accuratissimo le opere di William Shakespeare. È di forma circolare, con il palcoscenico coperto che si protende verso l’area del pubblico, che invece è scoperta e circondata da palchi su tre livelli. Il materiale utilizzato, proprio come nell’originale, è unicamente legno di quercia».

Fu il preludio all’incontro con Maurizio Scaparro.

«Con lui ho fatto Mercuzio in “Romeo e Giulietta” quando era il direttore del teatro Eliseo. Ebbe un successo molto forte e la critica si espresse nei miei confronti in termini entusiastici. Subito dopo Maurizio mi propose di fare il “Don Giovanni raccontato e cantato dai comici dell’arte”. L’ho fatto dappertutto anche all’estero. A Napoli sono andato in scena al Mercadante».

Con quello spettacolo nacque il lungo sodalizio con Peppe Barra.

«Dal 2003 fino al 2017 ho interpretato lo storico personaggio del Diavolo-Plutone Asmodeo nella tradizionale “Cantata dei pastori”». Nel frattempo ha lavorato con Luca Ronconi. «Per 4 anni, fino al 2009, a Torino e a Milano. Ho fatto delle tournée e sono tornato a Napoli con “Inventato di sana pianta” di Hermann Brock, un scrittore austriaco».

Dalle Alpi alle Piramidi, ci verrebbe da dire, perché da Torino e Milano sbarcò al Teatro Greco di Siracusa.

«Ho partecipato a tutte le rappresentazioni Inda dal 2009 al 2012. Nove titoli in tutto facendo le parti più importanti. In quell’occasione ho lavorato con Antonio Calenda, Krzysztof Zanussi, Roberta Torre, Daniele Salvo».

E conobbe Luca De Fusco.

«Mi voleva nella sua compagnia, ma io ero impegnato. Per un anno ci siamo fatti la corte. Nel 2012 debuttai con lui nell’“Antigone” allo Stabile di Napoli».

Iniziò l’avventura che l’ha vista protagonista insieme agli altri del passaggio dello Stabile a Teatro Nazionale.

«Nel 2015, con il Decreto Cultura, c’è stata la Riforma Franceschini che, tra l’altro, ha introdotto la qualifica di teatro nazionale dettando i parametri per concorrere a ottenerla. Per me è stato motivo di grande orgoglio e soddisfazione fare parte di un gruppo che ha lavorato affinché lo Stabile napoletano potesse diventare Teatro Nazionale». Perché? «Mi considero un uomo in viaggio e mi sono sempre identificato molto nella istituzione per cui ho lavorato. In questo caso, in modo particolare, la battaglia da combattere era molto dura perché c’era tutta una serie di parametri ai quali allinearsi».

Come ci siete riusciti?

«Grazie alla grande capacità manageriale di Luca De Fusco che ha adottato il modello tedesco già sperimentato al teatro di Siracusa da Fernando Balesta con il quale avevo lavorato e che, quindi, conoscevo».

In sintesi di che cosa stiamo parlando?

«Nei teatri stabili tedeschi si lavora su progetti multipli. Questo comporta che gli attori provano al mattino lo spettacolo che deve andare in scena e nel pomeriggio quello che debutterà successivamente. In tal modo la compagnia, nella sua totalità, è impegnata per tutte le otto ore che compongono la sua giornata lavorativa, senza dispersione di tempo. In poche parole si lavora contemporaneamente su due spettacoli. A Napoli ci siamo fatti trovare pronti perché nel 2012 già si parlava di questa riforma che avrebbe rivoluzionato il teatro. Facemmo quadrato intorno al nostro direttore e ci mettemmo a lavorare senza sosta motivati dal grande ottimismo di Luca. È stato bravissimo a organizzare tutto il lavoro intorno a questo obiettivo e soprattutto a motivare le persone facendole identificare con le istituzioni. Quando arrivò la notizia che lo Stabile aveva avuto il riconoscimento di Teatro Nazionale stavamo provando “Le tre sorelle” di Cechov in palcoscenico. Ci interrompemmo e, tutti in costume, salimmo in direzione a festeggiare perché c’eravamo identificati con il teatro e con la città».

Qual è il suo prossimo obiettivo professionale?

«Ho imboccato la strada del primoattore e sono maturo per percorrerla fino in fondo. Onorerò questi 8 anni passati al Teatro Stabile di Napoli partecipando anche all’ultima produzione che è “Antigone” con una piccola parte. È un attestato di riconoscenza e stima verso la città che ha significato e significa molto per me. È in previsione, poi, la ripresa del “Macbeth” dove sono stato già protagonista al Globe di Roma e, nel cassetto, ci sono un paio di progetti con Luca».

Lavorerebbe anche con il nuovo direttore dello Stabile-Teatro nazionale napoletano?

«Certamente, perché come ho già detto, per me la cosa più importante è l’identificazione con l’istituzione».