Gianni Molaro (nella foto) è uno stilista di abiti da sposa e di alta moda. La sua esplosiva creatività lo rende capace di esprimersi in tutte le forme dell’arte. Ha il suo atelier a Roma, in piazza di Spagna e conserva il suo primo laboratorio a San Giuseppe Vesuviano. È nel Guinnes World Records Book per una sua creazione. Partecipa alla trasmissione “Detto Fatto” condotta da Caterina Balivo, in onda su Rai 2. Lella Di Marino ha scritto il romanzo “Un amore diverso”, edito da Mondadori, ispirato alla sua vita. «Sono nato a San Giuseppe Vesuviano e ho perduto mio padre quando avevo appena sei anni. Rimasta vedova, mamma non riusciva a mantenere cinque bambini piccoli e perciò, insieme a due fratellini, mi mise in collegio a Pompei. Ci sono rimasto fino alla terza media. Poi andai a una scuola pubblica fino al conseguimento del diploma. Ricordo che la vita da collegiale era caratterizzata da momenti di spensieratezza cui se ne alternavano altri di profonda tristezza. Mi mancava la famiglia e quel senso di libertà che ogni ragazzino prova stando per strada a giocare con i suoi coetanei. In quegli anni scoprii di essere un sognatore e un creativo. Volevo farmi prete per diventare Papa oppure un artista per raggiungere la fama di Picasso o Dalì. Cominciai a dipingere e i miei sogni erano sempre orientati verso qualcosa di grande, di esplosivo. Allora non pensavo minimamente che avrei fatto lo stilista. Crescendo ho capito quanto sia stata importante l’esperienza del collegio nella mia formazione».

Quando decise cosa avrebbe fatto da grande?

«Quando avevo 18 anni cominciai ad avere contatti con il mondo della moda. Mi affascinava l’atmosfera che si respirava e vedevo che molte persone di quell’ambiente erano ricche e famose. Volevo diventare come loro perché ero nato povero e non volevo rimanere tale. Decisi di iscrivermi all’Accademia della Moda, a Napoli. Ma per mantenermi dovevo anche lavorare».

E cosa fece?

«Di tutto e di più, dal ragazzo del barbiere a quello del tappezziere, dal garzone di negozi al barista che portava i caffè a domicilio. La svolta c’è stata quando andai a lavorare come commesso in un grande negozio di tessuti all’ingrosso a San Giuseppe Vesuviano, la Cnc di Francesco Casillo, per tutti don Ciccio. Era un grande conoscitore di tessuti e da lui si rifornivano confezionisti nazionali e stranieri. Standogli vicino non solo cercavo di “rubargli” il mestiere ma ebbi l’opportunità di conoscere personaggi del settore molto importanti».

Lei ha parlato di svolta nella sua vita. In che senso?

«Conobbi un affermato confezionista che produceva abbigliamento per bambini. Apprezzò la mia capacità di consigliargli i tessuti e trovò belli e originali i cartamodelli che preparavo a casa, al rientro dal lavoro, insieme a mia sorella Consiglia. Spesso, oltre a disegnare i modelli di giacche, gonne o abitini per bambini, riuscivamo anche a confezionarli e li vendevamo privatamente. Con i guadagni comprammo la prima macchina da cucire e quella per tagliare i tessuti. Un giorno il confezionista, che si chiamava Pasquale Casillo, mi disse: “Gianni, sei molto creativo e mi piace quello che disegni. Vuoi venire a fare lo stilista nel mio atelier a Terzigno come consulente?”. Accettai senza esitazione. Sono rimasto nella sua azienda, la “Zuma baby”, 5 anni e ho disegnato le prime collezioni per bambini. Con lui sono stato a Parigi e in tante fiere prestigiose. Cominciai a farmi conoscere e apprezzare e le consulenze come stilista aumentarono. A 25 anni, però, quell’attività non mi bastava più. Volevo crescere e avere un atelier tutto mio».

Quando lo aprì?

«Nel 1990 a San Giuseppe Vesuviano. Ero solo e mi aiutò a trovare il locale il sindaco dell’epoca, Agostino Ambrosio. Partii subito con gli abiti da sposa e gli abiti da sera».

Da collezioni per bambini ad abiti molto particolari. Come spiega questo importante “cambio di passo”?

«La mia creatività non è stata mai caratterizzata da “fasi”. È un continuo divenire senza soluzione di continuità, senza limiti di forme e di contenuti. Spazia a 360° dalla pittura alla scultura e all’alta moda. Basti pensare che ho disegnato i mobili del mio atelier e poi li ho fatti costruire. Per promuovere la mia sartoria di alta moda realizzai personalmente cinquecento confezioni di fiori secchi e li regalai a ogni negoziante di San Giuseppe. Ebbi un ritorno perché molti di loro mi mandarono potenziali clienti. Lavoravo incessantemente fino alle ore piccole. Ricordo che una notte fui svegliato da una pattuglia di polizia. Gli agenti avevano visto le luci dell’atelier accese e pensarono che c’erano i ladri. Mi ero semplicemente addormentato stanco morto sul divano».

Il 1993 segna una data storica nella sua attività perché entrò nel Guinnes World Records Book. Cosa accadde?

«Venne a trovarmi una mia amica, Angela, professoressa dell’istituto alberghiero. Mi disse che doveva sposarsi e che voleva un abito molto particolare perché alla cerimonia erano invitate persone di alto profilo. Giorni prima avevo letto su una rivista nazionale che una sposa aveva indossato un abito con un velo lungo 277 metri facendo registrare un record per chi lo aveva realizzato. Volevo battere quel primato e le proposi un vestito con un velo di 300 metri. Mi chiese un giorno di tempo per decidere. Ritornò e mi disse che l’idea le piaceva. Realizzai il velo insieme a mia sorella Consiglia e si pose il problema di come portarlo fino alla chiesa. Chiamai tutti i miei amici e le mie amiche per farmi aiutare in questa impresa e, per rendere noto l’evento, quindici giorni prima delle nozze, feci affiggere per tutto il paese e in quelli limitrofi 5.000 manifesti 100x80. Li disegnai io stesso con una grafica che attirasse l’attenzione. Una mia amica giornalista diede la notizia sul “Mattino” e si scatenarono tutti i quotidiani e i media nazionali e stranieri. Perfino l’Ansa lanciò la notizia. Il giorno della funzione, ai lati del percorso che portava alla chiesa, si formò una folla incredibile. A mano a mano che il velo avanzava le persone si aggiungevano ai “portatori” fino al punto che il velo fu sollevato sopra le teste formando un bianco, interminabile tappeto volante. La documentazione fotografica fatta dall’alto testimonia la spettacolarità dell’evento. All’ingresso della chiesa un notaio registrò tutti i dati per la legittimazione del record».

Cosa rappresentò per lei la realizzazione di quel velo?

«Avevo rotto un canone dell’arte tradizionale perché avevo creato un capolavoro assoluto, una creazione senza precedenti che non restava una mera astrattezza ma aveva avuto un utilizzo concreto. Il giorno dopo stavo su tutte le televisioni del mondo e dal ragazzino di San Giuseppe Vesuviano ero diventato il grande stilista chiamato da tutti i media. L’anno dopo realizzai l’abito da sposa più largo del mondo, misurava 13 metri di diametro. La rivista “Sposa bella”, che all’epoca era la più importante nel settore a livello mondiale, mi sponsorizzò dedicando l’intera copertina alla mia creazione che feci indossare dalla conduttrice televisiva Antonella Elia. Lo presentai alla stampa a Pompei. Successivamente fu indossato da una giovane avvocatessa di Caserta che me lo chiese per il suo matrimonio. Si spiegava a ventaglio, e quando fu completamente aperto e retto da tredici damigelle, occupò l’intera navata centrale del Duomo della città. La stampa invece di apprezzare il mio lavoro si rivolse al vescovo chiedendogli come mai fosse potuta accadere una simile cosa. L’alto prelato, con molto imbarazzo, si giustificò dicendo che non era stato informato. Tra critiche e consensi ancora una volta finii sulle prime pagine dei giornali e l’evento andò in onda sulle più importanti emittenti nazionali e straniere. Fui apprezzato da Vittorio Sgarbi e la “polemica” fu oggetto di una trasmissione condotta da Luca Giurato. Ne parlò anche la giornalista Rosanna Cancellieri».

A questo proposito, per la prima volta lei ha usato il termine “art couture”. Che cosa ha inteso dire?

«L’abbigliamento usa l’arte e l’arte usa l’abbigliamento. Pronunciai questa frase nel 2004 quando partecipai a Palazzo Venezia a una mostra dove presentai una collezione di abiti che non erano da indossare per vestire il corpo in quanto questo era soltanto un manichino che l’abito faceva prendere vita. Il concetto non fu capito immediatamente dalla stampa tanto è vero che il giornale “Il Tempo” uscì con un titolo in prima pagina che diceva “La moda è impazzita e tutti fuggono”».

Lei stupì ancora tutti con la creazione dell’abito da sposa più prezioso al mondo. Come era fatto?

«Me lo chiese un’amica che doveva sposare un importante grossista di gioielli. Lo impreziosii con 7mila diamanti che mi fornì il promesso sposo. L’eco che suscitò questo nuovo evento fu tale che fui invitato alla sua trasmissione dalla giornalista statunitense Oprah Winfrey, famosa conduttrice televisiva, autrice televisiva, attrice e filantropa. L’incontro sfumò per colpa del mio agente dell’epoca che avanzò richieste oggettivamente improponibili. Comunque fu mandato in onda il video dell’evento. È stata una grande occasione mancata».

Aveva raggiunto una popolarità “planetaria”. Era soddisfatto?

«No, perché il mio sogno era quello di aprire un atelier a Roma, a piazza di Spagna, ed entrare nel ghota dell’alta moda. Il battesimo lo ebbi da Santo Versace e da sua moglie Francesca, mia cara amica, che mi inserirono nel loro calendario. La prima sfilata la dedicai alle tradizioni popolari della Campania e feci andare in passerella abiti dedicati ai fujenti di Madonna dell’Arco. Non fu molto apprezzata. Poi passai a temi più “consoni” e mi ispirai alle opere di Dalì, agli Scavi di Pompei fino ad arrivare, unico fino a quel momento, a fare una sfilata a Palazzo Farnese, nella sala Carracci, ospite dell’ambasciatore di Francia e di sua moglie. Da quel momento ho sfilato in tutti i palazzi più importanti di Roma, incluso Palazzo Venezia di cui ha fatto cenno prima».

Quando aprì l’atelier a Roma?

«Nel 2013, a piazza di Spagna e lo inaugurai coprendo tutta la scalinata di Trinità dei Monti con 3mila metri di tulle bianco. Era il velo di 3 chilometri, “il velo della pace”, che avevo realizzato qualche anno prima per un matrimonio celebrato a Casal di Principe. Lo aveva cucito ancora una volta mia sorella Consiglia».

Perché usò proprio quel velo?

«Esprimeva una simbologia importante. Aveva messo un sugello a un atto d’amore, il matrimonio di una ragazza di Casal di Principe, paese tristemente noto, e adesso si distendeva sulla Capitale e si inginocchiava per rendere omaggio all’arte espressa dalla scalinata di Trinità dei Monti. Tra i vari personaggi che parteciparono c’erano i miei cari amici Amanda Lear, Amedeo Minghi e Marina Ripa di Meana, che era stata la madrina dell’atelier che avevo aperto nel 2006 a Napoli, in piazza dei Martiri, e che poi chiusi nel 2013».

Qual è la donna ideale che vorrebbe sempre come sua cliente?

«Quella che privilegia l’essere all’apparire, che mette a nudo la sua anima consentendomi di vestirla. Quella con la quale si stabilisce un rapporto empatico che è fonte di arricchimento per entrambi. Ho sempre avuto la massima umiltà quando mi relaziono con gli altri perché sono convinto che da ciascuno posso imparare qualcosa».

Ha un progetto da realizzare?

«Costituire a mie spese la Fondazione “Gianni Molaro” con un museo dove sono esposti i miei abiti di Art Couture, i miei disegni, i miei dipinti, le mie sculture e anche la mia collezione d’arte personale di quadri del Seicento napoletano di cui sono appassionato. Deve essere anche il luogo dove gli studenti di alta moda possano trovare ispirazione per le loro creazioni e un centro di incontri e dibattiti sull’arte nelle sue molteplici declinazioni. Molti giovani già mi consultano per le loro tesi di laurea. Ho deciso che destinerò la Fondazione al patrimonio culturale dello Stato».