Giornalista e docente, Giulio Baffi (nella foto) è presidente dell’Accademia delle Belle Arti e presidente dell’Associazione Nazionale Critici di Teatro. Collabora come critico teatrale con “la Repubblica - Napoli”. «Sono figlio di un magistrato napoletano che, come prima sede, ebbe Trani dove ho trascorso il mio periodo neonatale che coincise con l’ultimo anno delle seconda guerra mondiale. Quei terribili giorni li ho vissuti nel racconto dei miei genitori. I primi ricordi della mia vita iniziarono a Napoli. Piccolissimo, ero adorato dai miei nonni materni. Nonno, appassionato melomane, mi portava al San Carlo al quale era abbonato. Mi faceva sedere sul bracciolo che separava la sua poltrona da quella di nonna. Ho memoria di un “Hänsel e Gretel” e di un “Faust” che suscitò in me stupore e grandissima meraviglia quando il “mago” da sotto il mantello tirò fuori il mondo e si sentivano i suoni dei tuoni. Questa è stata probabilmente la prima determinante fascinazione che mi ha legato dagli inizi allo “spettacolo” e che mi ha accompagnato per tutta la vita».

Quando ha “annusato”, come ama dire, il teatro?

«Al liceo Umberto. Ho fatto qualche piccola presenza nella recita di “La piccola città” con la regia di Mario Santella. Poi ho partecipato ad “Aspettando Godot” di Samuel Beckett con la regia di un giovane Gerardo D’Andrea. Vladimir era interpretato da Vittorio Mezzogiorno. Il nostro professore di filosofia ci disse: “avete scritto venite a divertirvi al Liceo con il nostro spettacolo. Dovevate scrivere venite a pensare, non a divertirvi”. Fu una straordinaria esperienza e l’anno successivo tentammo di mettere in scena “L’eccezione e la regola” di Brecht e “Ricordo di due lunedì”, di Arthur Miller. Non avemmo il permesso di fare le rappresentazioni perché allora i diritti li avevano i grandi padroni del teatro, tra cui Giorgio Strehler. Ritennero evidentemente che i ragazzi del liceo di Napoli non dovessero scherzare e giocare con il teatro, ma noi eravamo serissimi. Quel veto fa parte della mia memoria dolorosa perché non c’è niente di peggio che essere pronti ad andare in scena e non riuscirci».

Padre magistrato e fratello avvocato. Come mai non ha seguito la “tradizione” familiare?

«In verità ho provato a seguirla. Finito il liceo in maniera non proprio brillante, mi iscrissi a medicina, ma al terzo anno decisi che volevo fare altro e optai per la facoltà di giurisprudenza. Mi piaceva la materia ma anche il teatro. La fortuna mi aveva portato a scendere gli scalini del Teatro Esse di via Martucci 18 che era la sede del più importante e storico teatro di ricerca napoletano e italiano. Mi accompagnò Gerardo D’Andrea. In quella strada c’era anche il Teatro Instabile. Stavano costruendo la scena dei “Cenci” di Antonin Artaud. Era una fascinazione incredibile, un colpo al cuore. Da quel sottoscala non ne sono uscito più, anche se mi laureai in giurisprudenza rispettando così la richiesta dei miei genitori».

Messa la laurea nel cassetto iniziò a lavorare al Teatro Esse. Che cosa faceva?

«Per un certo periodo cercai di fare l’attore. Quando mi accorsi di non avere le qualità necessarie, senza farne un dramma, desistetti. Ciò che m’interessava veramente era essere protagonista in qualche modo del “fatto” teatrale, della rappresentazione, e lo si può essere anche mettendo bene i chiodi e al posto giusto».

Quindi?

«Cominciai a occuparmi di organizzazione, di amministrazione, di promozione e di collegamenti. Ho lavorato con il Teatro San Carlo, poi con Maria Luisa Santella, con la Nuova Compagnia di Canto Popolare, con Concetta Barra. Insomma, è stato un percorso molto ricco e articolato. Contemporaneamente cercavo disperatamente di trovare anche un lavoro retribuito perché quello che facevo era del tutto gratuito».

Dove lo trovò?

«Alla redazione napoletana del quotidiano “l’Unità”, come vice di Paolo Ricci. Era il grande vecchio del teatro napoletano, critico teatrale e importante pittore, saggista, amico di Eduardo De Filippo e di Viviani. Fui presentato da Felice Piemontese che già lavorava con il giornale. Cominciai a collaboratore pagato poche lire a pezzo, ma mi servivano per farmi sentire, in qualche modo, economicamente produttivo».

Paolo Ricci le fece conoscere Eduardo De Filippo. In quale occasione?

«Mi chiese di accompagnarlo in Puglia dove Eduardo stava facendo un laboratorio con dei giovani pugliesi per mettere in scena “L’arte della commedia”. Fu un incontro molto importante e interessante. Era uno che ascoltava molto e parlava poco».

Quando c’è stata la svolta nella sua attività lavorativa?

«Sicuramente quando mi trasferii a Roma, a Botteghe Oscure, e diventai responsabile degli spettacoli delle feste dell’Unità gestiti dalla struttura “Amici dell’Unità”, costola del Pci. I festival e le feste nazionali di quel giornale formavano il fenomeno in cui tutto il nuovo mondo teatrale si misurava. Cominciarono le mie prime importanti conoscenze, prodromiche di grandi amicizie: Lucio Dalla, Roberto Benigni, Nicola Piovani».

Dove aveva acquisito questa capacità organizzativa?

«Era innata e mi accorsi di averla lavorando con la Nuova Compagnia di Canto Popolare perché mi occupavo dell’organizzazione dei concerti a 360° badando che non ci fossero problemi di alcun genere. Nacque il grande rapporto con Roberto De Simone. Ricordo che “governai” l’incontro della Compagnia con Eduardo De Filippo e Romolo Valli. Fu l’occasione per consolidare i rapporti con il Maestro e conoscere l’attore emiliano con il quale sono stato in ottimi rapporti fino alla sua dipartita».

È stato anche il responsabile della storica Festa dell’Unità alla Mostra d’Oltremare di Napoli del 1976.

«L’intero programma costò 30 milioni di lire. Lo ricordo bene perché l’amministratore disse: “se costa una lire in più, ce la rimetti tu”. Fu un evento straordinario e  volli che nel “mio” festival ci fosse teatro come grande emozione popolare e colta, luogo di incontro, confronto tra differenze, poetiche distanti, mitiche presenze, giovani invenzioni, rischiose scoperte ed altro ancora. Tra i tanti eventi provocai due “incontri” particolari. Il primo tra “Zappatore” e “Natale in casa Cupiello” di Eduardo. Provocò un acceso dibattito soprattutto sulla diversità dei linguaggi. Ho sempre creduto molto nella loro contaminazione perché fa crescere. Il Maestro mi donò una locandina su cui scrisse come dedica “a Giulio Baffi, guida valente del mio Natale della Festa dell’Unità”. Al Teatro Mediterraneo ero seduto accanto a lui: che emozione! Il secondo con le voci di giovani artisti napoletani, distanti tra loro per strade e poetiche, facendo lavorare i giovanissimi Claudio Ascoli, Antonio Neiwiller, Luca De Fusco, Mario Martone, Bruno Roberti, Rosario Crescenzi ed i gruppi del Teatro Contro, Teatro Instabile, Teatro Oggetto, Chille de la balanza, ognuno per suo conto, ma insieme nei numerosi “microspettacoli” del progetto “Cane randagio”, creazione collettiva dedicata tutta all’impegno inquieto di Vladimir Majakovskij».

Poi ritornò a Napoli. Perché?

«Mi ero un po’ stancato di andare in giro e poi volevo sposarmi. Divenni il responsabile per lo spettacolo dell’Arci regionale, la struttura portante di tutte le attività culturali che afferivano alla sinistra. All’epoca mi occupavo di teatro, musica e cinema. Altre conoscenze, altri rischi, altri artisti che sono diventati miei amici e che ho messo insieme, pronti a raccogliere sfide che allora si pensavano impossibili. Nel frattempo avvenne l’altro micro cataclisma della mia vita dopo quello di scegliere di occuparmi di spettacolo invece di sfruttare la laurea».

A cosa si riferisce?

«Bisognava nominare il nuovo direttore del teatro San Ferdinando di proprietà di Eduardo e dato in affitto all’Ente Teatro Italiano che ne gestiva la programmazione. L’Eti propose una rosa di nomi tra cui il mio. Era richiesto il gradimento di Eduardo che scelse me».

Che indirizzo diede alla programmazione?

«L’Eti aveva una sua filosofia dalla quale non si distaccava facilmente. Con la mia “autorevolezza culturale” riuscii, comunque, a inserire una rassegna di nuova drammaturgia con i primi spettacoli di Martone e di Servillo. Feci diventare il “ridotto” una sala utilizzabile per spettacoli e rassegne. Incisi profondamente sulla politica dei prezzi portandoli a livello popolare. Lo feci per favorire la formazione di un pubblico di giovani che con la loro  presenza non solo garantivano che la sala si riempisse anche nelle giornate successive alla “prima” ma anche  perché facessero “proselitismo” con il passa parola. L’abbassamento del prezzo del biglietto veniva compensato da una diminuzione della spesa per la pubblicità. Il progetto andò bene al punto che cominciò a dare fastidio agli altri teatri cittadini che cominciarono a boicottare Eduardo e me. Il Maestro non fu minimamente scalfito, e ci mancherebbe, io invece rimasi senza lavoro perché nel 1983 l’Eti non rinnovò il contratto e il San Ferdinando chiuse».

Cosa fece per vivere?

«Furono momenti molto faticosi e complicati, oltretutto era nata nostra figlia Chiara. Fortunatamente la mia credibilità mi dava la possibilità di scrivere ed entrai nella redazione de “Il Giornale di Napoli” di Orazio Mazzone, sempre come collaboratore. Ebbi anche una supplenza all’Accademia di Belle Arti in Storia e tecnica della regia. L’ho mantenuta fino al pensionamento. Scoprii di avere una straordinaria vocazione per l’insegnamento e una grande capacità di comunicare con i giovani e di destare in loro interesse. Quando venni a sapere che “la Repubblica” apriva la redazione a Napoli, mi proposi. Il responsabile, Franco Recanatesi, mi fece scrivere un pezzo e gli piacque. Scrivo, sempre da collaboratore, come critico teatrale sul quotidiano fondato da Eugenio Scalfari dal primo numero della redazione napoletana».

Tra il giornalismo e la docenza si inseriscono una miriade di iniziative. Quali?

«Ho scritto qualche libro tra cui ci sono le due edizioni di “Visti da vicino”, raccolta di incontri con personalità dello spettacolo. Ho fatto con il Centro Produzione Rai di Napoli parecchie trasmissioni radiofoniche tra cui il ciclo “Signori la mezz’ora”. Erano incontri con attori di tradizioni perché per me la memoria non si dovrebbe mai perdere. Sono stato l’ultimo a intervistare Nino Taranto, Beniamino Maggio, Pupella, Rosalia. Sono stato l’organizzatore di “Benevento Città spettacolo” e del “Premio Massimo Troisi”. Ho fatto “Il sorriso del Vulcano” in cui mettevo in rete un percorso di teatro e musica nei comuni vesuviani. Ho realizzato il progetto “Raccontami” per valorizzare 50 località, per lo più poco note o sconosciute del territorio regionale, che individuavo. L’ultima esperienza è stata il “Festival di Casamarciano”, legato sempre alla valorizzazione del territorio. Ho fatto tutte queste iniziative in collaborazione con Geppi Liguoro, il direttore di Vesuvioteatro di cui io sono il direttore artistico. É una persona che è stata sempre disponibile a sognare insieme a me e a lavorare per divertirci».

Come è la cultura a Napoli?

«C’è una grande vivacità culturale ma anche una grande disattenzione per essa. Predomina la pigrizia, il pericoloso conformismo, una scarsa volontà di indagare e di dare spazio. Quel poco che si investe lo si fa sul sicuro, mentre bisogna rischiare altrimenti non si porta a casa nulla. Vedo mediamente 200 spettacoli teatrali all’anno nella speranza, ogni volta, di passare la notte insonne perché ho provato qualche emozione».

Come è il suo rapporto con i giovani?

«Ascolto tutti quelli che hanno delle idee e non sanno a chi raccontarle. Mi telefonano e ci vediamo. Ovviamente parliamo sempre di spettacolo. Penso che tutte le occasioni di incontro e di confronto sono importanti».

Colleziona caleidoscopi. Perché?

«Formano immagini vere che mutano imprevedibilmente a ogni suo movimento, per cui non si possono mai vedere due volte alla stessa maniera».

Ama i gatti. Il motivo?

«Ne ho sempre avuto uno e li amo perché non ubbidiscono».

Che cosa rappresenta per lei essere diventato nonno?

«La sorpresa di una felicità maggiore».