Giulio Raimo (a sinistra nella foto, a destra il figlio Mirko), ragioniere, è l’amministratore unico della Raimo srl, impresa storica fondata a Napoli nel 1847 sotto Ferdinando I di Borbone re delle Due Sicilie. «Sono nato e cresciuto al corso Vittorio Emanuele. Dopo le elementari i miei genitori, Arturo Raimo e Adriana Ruggiero, mi iscrissero all’Istituto Bianchi dei padri Barnabiti a Montesanto. Era una scuola molto severa che garantiva continuità nella frequenza giornaliera e richiedeva impegno negli studi. Dopo la licenza media passai alla scuola pubblica e mi diplomai in ragioneria. Da adolescente iniziai a praticare con interesse e passione lo sport».

Quale?

«Mi iscrissi alla palestra Fulgor perché mi piaceva il pugilato. Si trovava in un sottoscala di via Toledo e quando scendevamo le scale battevamo i piedi per terra per fare allontanare eventuali animaletti poco graditi. Il locale era talmente piccolo che le corde del ring stavano a pochi centimetri dalle pareti. Non c’era lo scaldabagno e la doccia la facevamo con l’acqua fredda. L’allenatore era il mitico maestro Geppino Silvestre che ha formato molti campioni. Ricordo l’emozione che provai quando papà firmò l’autorizzazione che mi permetteva di allenarmi. Avevo 13 anni ed ero pieno di entusiasmo e voglia di fare».

Perché proprio pugilato?

«Lo sport è stata una costante in famiglia. Lo praticava mio nonno, che ha combattuto la prima guerra mondiale arruolato in Marina; mio zio dal quale ho ereditato la passione per il pugilato che faceva a livello agonistico con buoni risultati; e mio padre che invece si interessava di calcio prima come giocatore e poi come allenatore di squadre dilettanti. Mi portava con lui nelle sedute di allenamento e giochicchiavo un poco anche io. Poi iniziai ad accompagnarlo la domenica mattina nei paesi limitrofi a vedere le partite in trasferta della squadra di quarta categoria che allenava. Il più delle volte scoppiavano risse in campo e questo mi terrorizzava. Decisi che non avrei mai giocato seriamente a calcio ma che mi sarei dedicato esclusivamente alla boxe. Comunque papà è stato un bravo allenatore che ha cresciuto calciatori diventati famosi tra cui Gianni Di Marzio e Franco Cordova».

Dopo il diploma che cosa fece?

«Mi iscrissi all’Università alla facoltà di Scienze dell’economia ma lo studio non mi attirava per cui mi arruolai volontario nella scuola Militare appartenente alla “Folgore”. Finita la “ferma” mi inserii nell’attività e lì cominciò la mia avventura nell’azienda di famiglia».

Ci racconti.

«Rappresento la quinta generazione che ha come capostipite Salvatore Raimo che nel 1847 fondò l’omonima ditta. Al Museo aprì l’officina dove costruiva oggetti chirurgici e strumenti da taglio, e a piazza VII Settembre il negozio per la vendita dove, ampliato e ristrutturato, è tutt’ora ubicato. Il mio avo aveva due figli che lavoravano con lui, Giulio e Carmine. Giulio era molto intraprendente e con lui iniziò l’ampliamento dell’attività che fu proseguita con successo da una delle due figlie, Margherita, rimasta nubile. L’altra, Maria, era sposata ma senza figli. Margherita adottò mio padre Arturo, suo nipote, che al rientro dalla guerra l’affiancò nell’attività. Agli inizi degli anni ’70 iniziai a lavorare con papà. Curavo prevalentemente i rapporti esterni. A giudicare dai fatti e da quello che dicono gli operatori del settore, il mio ingresso in ditta ha segnato una svolta determinante nell’attività di famiglia».

Perché?

«Iniziammo ad essere il punto di riferimento delle più importanti aziende farmaceutiche. Queste si avvalevano di una fitta rete di collaboratori scientifici che visitavano strutture sanitarie e professionisti privati per presentare i propri farmaci. All’epoca, in quelle occasioni, ricevevano richieste riguardanti anche prodotti che interessavano il settore medicale in generale, a partire dagli strumenti chirurgici fino all’arredo ambulatoriale. I capi area relazionavano ai vertici aziendali che si rivolgevano a noi per avere la fornitura dei prodotti a loro richiesti. Erano cambiate le logiche di mercato e io adeguai, passo dopo passo, l’azienda a questa nuova realtà rivolgendomi ai piccoli fabbricanti specializzati nei singoli articoli anche perché l’officina al Museo era stata chiusa. Fondai la Giulio Raimo srl di cui sono l’amministratore unico».

Ha arricchito il “catalogo” anche con sue invenzioni.

«Sì, e le più significative sono due: “la linea di arredamento 1” e la “parete attrezzata”».

Ce le descrive in sintesi?

«Avevo notato che gli arredi ambulatoriali erano diventati obsoleti nella forma e nella qualità. Pensiamo ai lettini con materassini piccoli di spessore per niente comodi, di colore grigio che li rendevano tristi e freddi. Mi feci costruire dal contoterzista i singoli pezzi da assemblare con materiali più snelli, l’alluminio in particolare, e verniciati con tinte vivaci e allegre. I materassi li volli più alti e larghi per renderli confortevoli. Pensai, poi, che ogni specialista aveva bisogno di avere i suoi strumenti di lavoro a portata di mano e nello stesso tempo riposti in maniera da non creare ingombro. Creai la parete attrezzata in funzione delle varie specializzazioni. Cito l’elettrobisturi del dermatologo che realizzai in maniera estraibile e retrattile. Abolii completamente il tradizionale carrello in maniera da rendere libera l’area circostante il lettino del paziente».

Quali sono i vostri clienti?

«Siamo conosciuti a livello nazionale perché la nostra storia parla per noi. Avevo capito subito che era, però, importante incontrare di persona il “cliente” instaurando un rapporto diretto e non più mediato dalle case farmaceutiche. Cominciai a girare per incontrare ciascuno di loro. Erano privati professionisti e i vertici di aziende ospedaliere, strutture militari e civili che avevano propri ambulatori. Ero e sono sempre presente ai convegni medici più significativi, per potere parlare dei nuovi prodotti nei molteplici incontri personali che si fanno nelle pause tra un intervento e l’altro, a pranzo e a cena. Lo stesso discorso vale per le fiere delle quali la più importante è quella che si tiene annualmente a Düsseldorf. Si chiama Medica ed è una fiera-congresso. La nostra ditta continua a essere visitata da studenti della facoltà di medicina e da docenti e medici illustri che con il loro passaparola ci promuovono nel settore. Curo sempre con passione le pubbliche relazioni consolidando e accrescendo la clientela. Per questo motivo non ho mai avuto bisogno di rappresentanti».

Qual è la vostra gamma di articoli?

«La nostra attività è rivolta a soddisfare la domanda di due segmenti di mercato. Il primo riguarda la vendita e la fornitura di una variegata e molteplice tipologia di articoli. Riguardano il settore medicale (borse, bilance, tutti i tipi di misuratori, anche i più sofisticati per uso domestico, arredo sanitario, elettromedicali, lampade, diagnostica, strumentario chirurgico, elettrostimolatori, dermatologia e altro ancora); gli ausili per disabili (carrozzine, stampelle, deambulatori, poltrone relax e altro); la podologia e l’estetica; la coltelleria, forbiceria e il tempo libero. I prodotti sono fabbricati dai migliori marchi a livello mondiale».

Il secondo, invece?

«Riguarda una serie di servizi. Innanzitutto la verifica, misurazione e messa a norma delle apparecchiature elettromedicali con riferimento alla normativa CEI 62353 62-122 e IEC. Forniamo assistenza, manutenzione e sanificazione dei vani operativi delle ambulanze. Eseguiamo il tutto nel nostro centro riparazione e affilatura chirurgica e per la progettazione di pareti attrezzate».

Recentemente è affiancato da suo figlio Mirko che rappresenta la sesta generazione.

«È laureato in Scienze erboristiche presso la facoltà di farmacia della Federico II, anche lui è molto sensibile ai valori dello sport e alle necessità del sociale, si sta interessando di un settore nuovo, quello delle protesi dell’anca. Sta facendo un tirocinio come “specialist” in sala operatoria con un’eccellenza mondiale della chirurgia ortopedica. Porta avanti anche il progetto per ricominciare a fabbricare ferri chirurgici made in Italy, che da tempo non si producono più nel nostro Paese, ma con caratteristiche tecnologicamente all’avanguardia. Quanto prima apriremo una nuova officina».

In che senso sono diversi?

«Sono personalizzati e a volte anche colorati. Hanno la caratteristica di essere tracciabili grazie a un sistema tecnologico di ultima generazione. Ogni strumento racconta la sua storia e perciò è possibile sapere, tra l’altro, dove si trova in qualsiasi momento (sicurezza) quante volte è stato usato, su quale paziente e da quale medico».

È impegnato anche nel sociale?

«Dopo il periodo militare ho frequentato la palestra delle Fiamme Oro della Polizia di Stato a Monte di Dio e mi sono dedicato al judo che pratico ancora anche se con minore assiduità. Ho conosciuto i fratelli Parlati e le loro famiglie. Mi riferisco ai maestri di judo Raffaele e Massimo, e i campioni Enrico e Christian, figli di Raffaele. Raffaele e Massimo Parlati quali responsabili e fondatori della palestra Nippon Napoli di Ponticelli che ha come missione quella di togliere dalla strada i ragazzi a rischio proprio con la pratica di questa nobile arte marziale. Molti di loro sono passati alle smministrazioni militari sportive come il figlio di Massimo Parlati: Manuel, mio figlioccio. Si è istaurato con i Parlati un rapporto di amicizia, stima profonda e collaborazione, al punto che mi hanno nominato presidente onorario della Nippon».

Quali sono i progetti futuri?

«Oltre a quelli di cui si sta occupando Mirko, cioè la riapertura dell’officina e la realizzazione del progetto di divulgazione e diffusione dell’intervento di protesi d’anca, sto studiando con alcuni “colleghi” del settore un progetto molto importante che riguarda l’impiego congiunto delle specialità di ciascuno di noi. Non posso fornire ulteriori precisazioni per ovvi motivi di riservatezza».