Francesco Corcione (nella foto) è Professore Ordinario di Chirurgia Generale presso il Dipartimento di Sanità Pubblica dell’Università Federico II di Napoli. È Presidente Emerito della Società Italiana di Chirurgia e Membro Onorario de l’Acadèmie Nationale de Chirurgie di Parigi. «Sono nato in un quartiere povero di Napoli, in via Correra, il famoso Cavone di piazza Dante da un papà commerciante di vini e oli e da una mamma casalinga. Grazie alla lungimiranza dei miei genitori ho avuto la fortuna di frequentare l’Istituto Bianchi dei padri Barnabiti».

Da un anno è chiuso. Che ricordo ha di quella scuola?

«L’ho frequentata dalla prima elementare al terzo liceo. Coniugava l’importanza dello studio con quella dell’educazione e mi ha consentito di frequentare un ambiente sicuramente migliore di quello dove abitavo. Alla licenza liceale ho avuto la menzione di “Principe degli Studi”che veniva data agli studenti che dal quarto ginnasio alla licenza liceale avevano avuto ogni anno la media del nove. La loro fotografia era esposta nella “galleria” dell’Istituto. Sono riuscito a recuperare la mia che custodisco gelosamente».

Come è nata la passione per la medicina?

«Mio padre, quando ero piccolo, giocava con me al dottore e mi chiedeva di visitargli le spalle. Contemporaneamente ero affascinato dal pediatra che veniva da noi. Era molto elegante ed era accompagnato dall’autista con una Fiat 1300 blu notte. Vedevo in lui l’uomo di successo che poteva avere una vita lussuosa. Ma la decisione di volere fare il medico la presi quando mia nonna fu operata. Eravamo fuori alla sala operatoria e, al termine dell’intervento, il chirurgo venne da noi tenendo in mano il pezzo di stomaco che aveva asportato. Allora si usava così. Vedendolo capii che fare il chirurgo significava togliere il male dal corpo umano».

Fu allora che decise che avrebbe fatto il chirurgo?

«Si accese la prima lampadina. L’episodio determinante fu quando accompagnai un mio amico ad assistere a un intervento fatto dal padre chirurgo all’Ospedale San Gennaro. Avevo sostenuto il mese prima l’esame di anatomia. L’intervento era importante perché si trattava di un tumore del retto. In sala operatoria tutti erano intorno al padre del mio amico che era il protagonista. Fu allora che decisi di dedicare tutte le mie energie alla chirurgia. Modificai il piano di studi e lo “specializzai” in quella branca della medicina».

Quando ha fatto la sua prima esperienza in sala operatoria?

«Al quarto anno diventai interno con il professore Califano al primo Policlinico e cominciai a fare il ferrista. Sono convinto che la vita è caratterizzata da un susseguirsi di sliding doors, di porte scorrevoli, che si aprono e si chiudono davanti a ciascuno di noi. Proprio come nel famoso omonimo film di Peter Howitt del 1998, entrare nella porta o lasciarsela chiudere davanti può cambiare totalmente la vita. A me è sempre accaduto così ».

In che senso?

«Quando dissi a mio padre che volevo fare il chirurgo, lui chiese consiglio a una sua cliente storica che abitava a via Orazio. La signora gli disse: “don Carlo, conosco Zannini e Lanzara. Se suo figlio vuole seguire uno di loro deve mettersi in fila. Io, però, ho un nipote bravo ma non altrettanto noto. Si chiama Califano e se va con lui avrà più possibilità”. Così feci e trovai un maestro che ha segnato positivamente la mia vita e la mia carriera. Era una persona molto alla mano, poco politico ma di una grande generosità. Era un grande chirurgo e anche lungimirante».

Poi si apri il II Policlinico.

«Califano fu uno di quelli che immediatamente colse l’occasione capendone l’importanza. Ero diventato il suo primo ferrista e lo seguii insieme ad altri pochi colleghi e lo aiutammo ad aprire il reparto. Facevamo tutto noi perché mancava ogni cosa. Eravamo medici, infermieri e servivamo anche i pasti ai pazienti».

Califano la mandò per un anno in Francia. Nel viaggio di rientro a Napoli fece un incontro molto importante per la sua carriera professionale. Con chi?

«Mi ero sposato da poco e andai a Reims a fare esperienza da un chirurgo importante, primo al mondo ad utilizzare protesi per l’ernia addominale. Un suo aiuto è stato il padrino di battesimo di mio figlio Carlo che fu concepito proprio in quella città. Ritornato in Italia cominciai a frequentare congressi nazionali e internazionali. Nel 1991 ci fu il primo congresso in Europa in cui si facevano interventi in diretta. Si conoscevano poco le tecniche americane con cui si facevano interventi all’addome con un diverso posizionamnto delle reti addominali. Oltretutto non erano ben viste. Incontrai un italo americano di origini casertane. Si chiamava Ermanno Trabucco e, come tutti gli americani, si era ritagliato una sua tecnica e la propose in quel contesto avendo delle grosse contestazioni da parte dei chirurghi europei. Anche io pensavo che quei sistemi non avrebbero avuto futuro».

Poi cambiò idea. Quale fu il motivo?

«Feci il viaggio di ritorno in aereo insieme a lui. Mi disse che il giorno dopo doveva andare in una clinica a Maddaloni a operare un suo cugino di ernia addominale e mi invitò ad accompagnarlo così gli avrei dato anche una mano. Accettai. Per la prima volta ho visto un paziente operato di ernia in anestesia locale che dopo due ore se ne andava a casa. Rimasi sbigottito. A Napoli, nel 1991, nessuno conosceva questa chirurgia ambulatoriale. Sono stato il primo a farla con molte critiche all’inizio, ma grandi successi in seguito per gli ottimi risultati conseguiti».

Altra fondamentale “sliding doors” gliela offrì il padrino di suo figlio. Ce la racconta?

«Sì, Jean Pierre doveva diventare professore associato e in Francia il concorso prevede anche l’obbligo per il candidato di stare in sala operatoria per una settimana con uno dei suoi commissari d’esame. Lui andò a Lione e quando terminò mi telefonò e mi disse: “Sai Francesco, sono stato in ospedale con un mezzo pazzo che toglie la colecisti con la laparoscopia. Vorrei che lo conoscessi. Era maggio e mi fissò un appuntamento per settembre. Andai a Lione in macchina e feci un viaggio che ha dell’incredibile perché arrivai nella città, raggiunsi l’albergo e il giorno dopo andai direttamente in clinica guidato solo dal mio intuito e dalla segnaletica stradale. All’epoca non esisteva il navigatore satellitare. Assistetti a una seduta pomeridiana di tre interventi consecutivi di asportazione di colecisti in laparoscopia. Il giorno dopo feci visita al paziente che era stato operato per ultimo, un industriale milanese. L’intervento era terminato a mezzanotte. Stava in poltrona bevendo un tè. Mi disse che si sentiva bene e che il giorno dopo sarebbe stato dimesso ».

 Rientrato a Napoli cosa fece?

«Ne parlai con Califano e demmo inizio a questa nuova e innovativa tecnica chirurgica che prevede l’esecuzione di un intervento chirurgico addominale senza apertura della parete. È la tecnica che oggi si usa normalmente ».

Dopo 20 anni andò all’Ospedale Monaldi. Perché?

«L’ospedale era stato completamente rinnovato da Domenico Pirozzi, manager di grande spessore e competenza. Era stato bandito un concorso per primario in chirurgia e partecipai insieme ad altri 32 concorrenti, tra i quali 9 primari di altre strutture. Risultammo tutti idonei e la scelta del “vincitore” spettava alla discrezionalità del manager. Ascoltò i progetti di ciascuno di noi e fu colpito della mia intenzione di sviluppare la chirurgia laparoscopica perché a Napoli non c’era un centro dedicato a questo approccio chirurgico tecnologico. Esisteva però in piccoli comuni del Centro-Nord come Schio e Correggio, che erano diventati in poco tempo punti di riferimento della chirurgia italiana. Nell’atto deliberativo della mia nomina Pirozzi scrisse che sceglieva me perché proponevo una chirurgia innovativa che attirava i pazienti, perchè il Monaldi non aveva il Pronto Soccorso e non ce l’ha ancora. È un ospedale di “quartiere” che correva il rischio di essere fagocitato dal Cardarelli e dal II Policlinico».

Quali sono stati i risultati della tecnica innovativa che ha portato?

«Anni fa, per la prima volta, l’Agenas (Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali) ha pubblicato i dati nazionali sulle colecistectomie laparoscopiche. Emerse che il Monaldi era risultato primo per qualità e quantità di interventi. Mi telefonò una giornalista di Focus salute per intervistarmi. La prima domanda che mi fece mi lasciò sconcertato. Mi chiese: “professore, come ha fatto a realizzare tutto questo a Napoli?”. Le risposi: “Perché c’è stata unità di intenti e la volontà di tutti di creare qualcosa di importante”. Recentemente, sempre l’Agenas, ha elaborato i dati del cancro del colon rettale. È risultato che dei 22 centri esistenti in Italia, l’unico centro trainer della Campania per numero e qualità è il Monaldi ».

Da due mesi è ritornato al II Policlinico. Il motivo?

«Due: mi sembrava fantastico chiudere la carriera dove l’ho iniziata e, come docente di Chirurgia Generale, sento forte l’esigenza e il desiderio di continuare a trasmettere ai miei allievi il mio sapere e il frutto delle mie esperienze. Per me è un dovere imprescindibile contribuire alla formazione dei giovani medici, che oggi più che mai hanno bisogno di stimoli e motivazioni».

Perché non è mai andato via da Napoli?

«Sei anni fa fui chiamato al San Raffaele di Milano a dirigere la Chirurgia Generale. Era tutto pronto e il contratto prevedeva anche due biglietti d’aereo per Napoli e ritorno ogni quindici giorni. Rifiutai sostanzialmente per tre ragioni. La prima è che mi sento molto napoletano e sono orgoglioso di esserlo. Per questo motivo organizzo anche incontri e convegni per consentire ai colleghi di altre città e altre nazioni di conoscere le bellezze del nostro territorio. La seconda è che ero stato eletto presidente della Società Italiana di Chirurgia, carica che comporta un impegno notevole. La terza, non meno importante, è che venni a sapere che l’ospedale aveva firmato una convenzione con la compagnia aerea in virtù della quale all’accompagnatore dell’ammalato proveniente dal Sud era riconosciuto uno sconto del 50% sul biglietto. Mi sentii strumentalizzato e arma per attirare ammalati al San Raffaele sottraendoli alle strutture sanitarie napoletane e meridionali in generale. É stata una bella rinuncia, ma non me ne pento».

Ha qualche hobby?

«Innanzitutto trascorro quanto più tempo possibile con i miei due nipotini, Raffaele e Francesca, figli di mia figlia Annalisa, che mi hanno fatto letteralmente impazzire. Mi piace giocare a calcetto con gli amici storici e correre. Amo il cinema e il teatro, soprattutto il San Carlo dove sono abbonato insieme a mia moglie Rosaria. Poi non rinuncio mai al piacere che mi dà il mezzo toscano che fumo ogni sera fuori al balcone di casa».