Eugenio Cricrì (nella foto) è avvocato penalista, con oltre cinquant’anni di professione. È stato più volte consigliere dell’Ordine degli Avvocati di Napoli e per dodici anni consigliere dell’Ordine Nazionale. Negli ultimi due mandati ha ricoperto la carica di vicepresidente. È stato presidente della Valtur per 4 anni.

«Sono il primo di tre fratelli. Ho studiato al Genovesi in piazza del Gesù perché ai miei tempi le famiglie borghesi facevano fare ai propri figli il liceo classico che consentiva l’accesso a tutte le facoltà universitarie. Pur essendo figlio di un medico, che poi si laureò anche in farmacia, non seguii le orme paterne e mi iscrissi a giurisprudenza ».

Perché?

«Negli anni ’50 e ’60 a Napoli c’era un’avvocatura, soprattutto quella penale, dotta e importante che naturalmente si esprimeva nei processi e faceva scuola. Ricordo Alfredo De Marsico, Giovanni Leone, Saverio Siniscalchi, Guido Cortese, Massimo e Vittorio Botti, Enrico De Nicola nel suo ultimo periodo in cui ha esercitato la professione. Andavo ad ascoltare le loro difese e le arringhe finali alla Corte d’Assise d’Appello che si trovava a San Domenico Maggiore. Ero studente universitario e rimanevo affascinato dall’oratoria di quei principi del foro. Sognavo di indossare un giorno la toga con i cordoni dorati e la pettorina bianca e arringare con altrettanta bravura, carisma e comunicazione persuasiva».

Quando si è laureato?

«Nel 1960 con una tesi in Diritto Penale. Onestamente durante il corso di laurea non sono stato uno studente brillante ma mi sono riscattato dopo dedicandomi con passione all’approfondimento minuzioso e scrupoloso della delicata materia del diritto penale e della procedura penale».

Con chi ha fatto la pratica forense?

«Con un vero maestro, l’avvocato Francesco Saverio Siniscalchi, padre di un altro grande del foro partenopeo, Vincenzo Maria Siniscalchi. Morì prematuramente e in maniera tragica perché fu investito mentre attraversava la strada».

Ricorda la sua prima discussione?

«Riguardava un caso molto complicato che si dibatteva dinanzi alla Corte d’Assise di Salerno. L’imputato era un contadino di San Valentino Torio, di nome Letta, accusato di tentativo di aborto seguito da morte. Si riteneva che questa persona, per nascondere la relazione avuta con una donna del popolo rimasta incinta, nel tentativo di farla abortire con pratiche non ortodosse, ne avesse determinato la morte. Io difendevo la parte civile, cioè i parenti della deceduta. Ma il vero debutto lo feci accanto al mio maestro nel processo Rota che fece scalpore a Santa Maria Capua Vetere. Il processo si svolse a Napoli. L’imputato che difendevamo era un preside di una scuola che, avendo scoperto che la figlia aveva una relazione, uccise l’amante. Riuscimmo a fare riconoscere l’omicidio come delitto d’onore, per cui fu sanzionato con pene inferiori. Il codice allora vigente riconosceva che l’offesa all’onore arrecata da una condotta “disonorevole” valeva come gravissima provocazione e la riparazione dell’onore non causava riprovazione sociale. Per noi fu una vittoria».

La tragica morte dell’avvocato Siniscalchi accelerò la sua decisione di aprire uno studio da solo.

«Proprio così, in via Santa Lucia 107. Gli inizi non furono certamente semplici, ma questo rientrava nella normalità. Come tanti giovani avvocati guardavo con particolare attenzione e ammirazione il Consiglio dell’Ordine. Pensavo che fosse molto importante e gratificante fare parte della rappresentanza dell’avvocatura».

Perché?

«Fondamentalmente per due motivi: consentiva di avere rapporti più diretti con i magistrati e dava la possibilità di sottoporre all’attenzione degli organi “istituzionali” le problematiche dei giovani avvocati. Ho sempre avuto una particolare sensibilità per questo aspetto della professione. In un primo momento perché ero direttamente coinvolto, quando poi sono cresciuto professionalmente e anche come età, ho sempre avuto a cuore i giovani cercando, nei limiti delle mie possibilità, di dare loro consigli giusti e anche aiuti concreti nel muovere i primi passi in un mondo non certamente facile, qual è quello dell’avvocatura».

In questa ottica è stato anche presidente di un’associazione di giovani avvocati.

«Sì chiamava Associazione Giovanile Forense. Privilegiavamo molto i giovani avvocati più meritevoli e ce ne stavano tanti ».

Quando decise di affiancare alla professione anche la rappresentanza dell’avvocatura?

«Nel 1970. Ero procuratore legale e mi candidai al Consiglio dell’Ordine. Fui eletto e poco dopo maturai anche i sei anni di iscrizione all’albo necessari per diventare avvocato».

Come fu quell’esperienza?

«Straordinaria. Ero il più giovane in un Consiglio composto da avvocati di notevole spessore ed esperienza. Era presieduto da Alfonso Tesauro, fratello di Giuseppe, rettore della Federico II. Tra i quindici consiglieri c’erano Gabriele Lanzara, Andrea Della Pietra, Giovanni De Maria, Gigino Palumbo, Renato Orefice, Mario Pisani Massamormile, Antonio Di Tuoro, Renato Benincasa. Avevo la delega per i rapporti con i praticanti procuratori legali ».

Riusciva a conciliare l’attività professionale con quella di consigliere?

«Sì, perché a quei tempi in Consiglio si andava solamente per le riunioni. Le competenze erano limitate alla redazione di pareri, alle iscrizioni dei praticanti, dei procuratori e degli avvocati, e ai procedimenti disciplinari. Non esisteva, come invece c’è oggi,la preoccupazione e l’attenzione a curare i rapporti esterni, le pubbliche relazioni».

Finito il mandato biennale, al successivo non si candidò. Lo fece nel 1974. Perché?

«Volevo fare l’avvocato a tempo pieno. Ci riuscii per un biennio ma cedetti nel successivo al carisma e al fascino del grande Alfredo De Marsico».

Con il quale ha avuto un’esperienza professionale particolarmente importante.

«Difesi il produttore Grimaldi nel processo a Pier Paolo Pasolini, assistito da De Marsico, per il film “I racconti di Canterbury”. ll procuratore della Repubblica di Benevento, città dove fu proiettato per la prima volta il film, accusò Pasolini di oscenità. La sentenza di primo grado del tribunale beneventano fu di condanna. L’appello fu celebrato a Napoli e Pasolini fu assolto».

In quell’occasione si verificò un fatto che ebbe molto scalpore.

«In aula tra il pubblico era presente Eduardo De Filippo. Quando De Marsico terminò la sua arringa il grande drammaturgo gli si avvicinò e gli baciò la mano in segno di ossequio e ammirazione».

Tra i tanti successi ne ricorda uno in particolare?

«Una bella vittoria in un processo che feci con Alfonso Martucci che era uno dei migliori avvocati di Santa Maria Capua Vetere. Il processo si fece in Corte d’Assise a Napoli. Era un caso di omicidio molto difficile e io riuscì a fare assolvere l’imputato ».

Nel 1984 si ricandidò al Consiglio dell’Ordine perché si sentiva maturo per assumerne la presidenza. Andò male. Perché?

«Formammo una squadra con un gruppo di amici. Fui eletto ma non riuscii ad ottenere la presidenza. Avevo sottovalutato un elemento fondamentale: avevo 50 anni ed ero troppo giovane per quella carica. Tutti fecero quadrato intorno a Renato Orefice, persona per altro degnissima di ricoprire quel ruolo, anche chi non condivideva le sue idee. L’obiettivo era quello di tutelare le prerogative di una generazione che non consentiva di essere scalzata da una più giovane».

Ci riuscì, però, nel 1990.

«Fui eletto presidente. Fu una presidenza divisa perché io lo fui per il 1990, poi subentrò Maurizio De Tilla per il 1991».

Ha detto che il Consiglio dell’Ordine ai suoi tempi era diverso da come è oggi. Quando ci fu la svolta?

«Il Consiglio, pur mantenendo le prerogative consiliari, cioè iscrizione all’albo, pareri e disciplina, è cambiato con Franco Landolfo».

In che senso?

«Con lui la presidenza diventò “politica”. Franco era sempre presente nelle manifestazioni e curava molto anche i rapporti con gli avvocati al di fuori dell’ambito professionale partecipando sovente a eventi importanti della loro vita privata. È stato un bravo presidente, sempre a disposizione dei colleghi e una presenza fissa nel Consiglio. Ha ricoperto la massima carica per 12 anni consecutivi».

Successivamente con la riforma della disciplina della professione forense si ebbe un cambiamento sostanziale nelle competenze.

«Il consiglio territoriale ha perduto quella sulla disciplina. Il procedimento viene condotto dal consiglio distrettuale di disciplina che è un organo di avvocati estraneo al Consiglio dell’Ordine. Si è ritenuto, infatti, con fondamento, che non si poteva avere un organo che indaghi e allo stesso tempo giudichi. Nella sua composizione, poi, c’è stata un’ipertrofia nel numero dei consiglieri che da 15 sono diventati 25. Inoltre sono state istituite le commissioni il cui numero è veramente eccessivo e, in molti casi, a mio avviso anche inutili».

Ha fatto parte del Consiglio presieduto da Landolfo?

«Solo per due mesi perché su sua indicazione fui nominato, da tutti i consiglieri del distretto, consigliere nazionale».

Un’ulteriore importante carica. Quanto è durata?

«Dodici anni, pari a quattro mandati. Negli ultimi due sono stato vicepresidente».

Ha partecipato alla stesura del Codice Deontologico. Che cosa è?

«È nato con noi dopo tre anni che ero nel consiglo nazionale ed è stato approvato il 17 aprile del 1997. Successivamente lo abbiamo modificato. La sua importanza è enorme perché per la prima volta venivano tipizzati i comportamenti deontologicamente scorretti, anche se in maniera non esaustiva, perché l’ultimo articolo chiarisce che è possibile procedere anche per altri fatti non previsti, ma ugualmente perseguibili ».

Come valuta il codice di procedura penale attuale?

«Apparentemente garantista, perché la prova viene raccolta nel dibattimento. Questo principio, però, nei fatti non significa nulla perché l’indagine, che poi costituisce il nucleo del processo, viene fatta dal pubblico ministero e il difensore non è proprio presente. In buona sostanza il Pm è il “signore della prova”».

Ha un hobby?

«Sono un vecchio cacciatore e quando ho capito che era il tempo di smettere mi sono dedicato al tiro al piattello nella specialità olimpica skeet. Quando l’età me lo consentiva ho fatto anche equitazione, sempre a livello amatoriale».