Luigi Filidoro (nella foto) è un chirurgo e ha prestato la sua attività professionale presso gli Ospedali Riuniti di Napoli, in modo particolare al Loreto Mare. Andato in quiescenza è stato medico di bordo della Msc e ha lavorato su tutte le navi della flotta in giro per il mondo. Parla quattro lingue: inglese, francese, spagnolo e portoghese.

«Sono nato da una famiglia medio borghese titolare di un’impresa edile dedicata agli scavi archeologici. Mio fratello e mia sorella, per volontà dei nostri genitori, frequentarono la facoltà di fisica e di ingegneria al Politecnico di Torino. Io, invece, volli rompere la “tradizione” e non solo mi rifiutai di andare a Torino, ma decisi di iscrivermi a medicina alla Federico II».

Perché proprio questo indirizzo?

«Al tempo del liceo non avevo le idee chiare su che cosa fare da grande. L’unica certezza e che non volevo entrare nell’azienda di famiglia. Scelsi medicina perché la ritenni un’alternativa valida. Fu un’intuizione giusta perché mi inserii perfettamente nell’ambiente e, bruciando le tappe, mi laureai in cinque anni con il massimo dei voti».

Quale specializzazione scelse?

«Durante gli ultimi anni del corso di laurea decisi che non avrei mai fatto il medico internista ma il chirurgo. Non era facile entrare in chirurgia generale al II Policlinico. Non conoscevo nessuno che potesse aprirmi una corsia preferenziale e, comunque, non sarei mai ricorso a questo tipo di aiuto. Ho sempre contato esclusivamente sulle mie forze e sulle mie capacità. Entrare nella scuola diretta dal professore Giuseppe Zannini fu la prima sfida che lanciai a me stesso e la vinsi».

Durante il primo dei cinque anni della specializzazione ci fu un evento che ha segnato tutto lo sviluppo della sua carriera professionale. Che cosa accadde?

«La specializzazione all’epoca non era retribuita per cui si poteva anche lavorare. Fu bandito un mega concorso agli Ospedali Riuniti di Napoli come assistente chirurgo. Lo vinsi e cominciai a fare le guardie nei pronto soccorso dei vari ospedali periferici e del Cardarelli. Ci fu un “innamoramento” con alcuni pazienti del Loreto Mare che si legarono a me in modo particolare. Di lì a poco il Cardarelli, scorporato, diventò azienda sanitaria di rilievo nazionale e nacquero le Asl. Gli altri ospedali entratrono a fare parte della Asl l, la più grande d’Europa. Decisi di rimanere al Loreto Mare e la scelta si rivelò felice ».

Perché?

«Mi ero specializzato in chirurgia generale, ero bene insediato nel territorio e cominciavo a costruirmi una discreta clientela privata. All’epoca non c’era incompatibilità tra il lavoro ospedaliero e l’esercizio della professione privata, come avvenne in seguito con la legge Bindi. I livelli della carriera erano solo tre, assistente, aiuto e primario. Divenni aiuto molto presto».

Che cosa significò per lei?

«La differenza tra assistente e aiuto ospedaliero era sostanziale. La guardia in emergenza era fatta da un aiuto e da due assistenti. L’aiuto la gestiva in prima persona e con la responsabilità primaria di tutto quello che accadeva fino all’indomani mattina. Questa situazione aumentò moltissimo la mia manualità e la casistica operatoria e maturai un’esperienza in chirurgia d’urgenza molto particolare. Nei cosidetti “anni di piombo” in quell’ospedale ci fu il record italiano di ferite da arma da fuoco, da punta e da taglio. Si facevano circa 200 interventi operatori all’anno. L’interesse iniziale per la chirurgia d’urgenza era diventato passione».

Poi nel corso degli anni ci fu un improvviso “switch off”. Come mai?

«Più che improvviso fu causato da un processo progressivo, latente anche se molto rapido, che raggiunse l’acme quando non avevo ancora compiuto 50 anni. Presi coscienza di essere insoddisfatto e che l’ospedale, che fino a un certo momento mi aveva dato più di quanto gli avevo reso, ora invertiva la rotta».

Cioè?

«Alle mie richieste di partecipazione a congressi per aggiornamenti professionali venivano opposti rifiuti motivati dalla mancanza di fondi; non c’era tournover quando medici e infermieri andavano in pensione con l’inevitabile conseguenza che aumentava il carico di lavoro e si abbassava il livello qualitativo delle prestazioni e dell’assistenza; non c’erano sbocchi di carriera. La riforma Bindi aveva abolito il primariato e istituito la figura del direttore di Unità Operativa con incarico quinquennale rinnovabile a seconda dei risultati conseguiti. Posizione praticamente irragiungibile solo per meritocrazia. Riuscii ad avere soltanto la responsabilità della chirurgia d’urgenza con un atto ospedaliero interno senza, però, alcuna formalizzazione. Nel senso che non c’era nessun atto ufficiale che incidesse sulla carriera né di natura economica né amministrativa. Cominciavo a essere saturo di questo lavoro e stressatissimo. Il nervosismo si rifletteva nella vita privata e in famiglia. Non ero più disponibile per niente e per nessuno».

Che cosa fece?

«Un’impiegata dell’amministrazione, mia paziente, mi comunicò candidamente che si era permessa di esaminare il mio fascicolo personale. Si era accorta che, in vista della legge Monti-Fornero, se avessi fatto la domanda di pensionamento entro il 31 dicembre 2011, sarei potuto andare in quiescenza dal 1° gennaio 2012. In caso contrario avrei dovuto attendere il compimento del 64esimo anno di età. Non ebbi esitazioni e firmai i documenti necessari per il pensionamento anticipato. Avevo 58 anni».

Ricorda un intervento di chirurgia d’urgenza particolare?

«Ne ho fatti oltre 5mila e 200 e l’urgenza ha sempre delle peculiarità che non si riscontrano negli interventi d’elezione che sono programmati e preparati sia a livello di équipe che di paziente. Comunque ce n’è stato uno che merita di essere raccontato. Avevo 33 anni e da poco ero stato nominato aiuto. Fu portato in sala operatoria un grave politraumatizzato da incidente stradale. Era giovane. I colleghi anziani, chi per una ragione chi per un’altra, evitavano di prendere in carico l’infortunato. Mi assunsi io la responsabilità con la collaborazione di un collega più giovane. Facemmo una toracofrenolaparotomia, cioè un’apertura delle cavità toracica e addominale con contemporanea incisione del diaframma. L’avevamo studiata solo sui libri e mai vista fare. Dominammo tutte le fonti emorragiche, così come mi aveva insegnato il mio maestro Zannini. L’ultima, però, non era compatibile con la vita perché c’era un’interruzione di una delle principali arterie coronariche. Il paziente morì in sala operatoria. L’esame autoptico accertò che l’intervento era stato eseguito correttamente per cui non ci furono risvolti di carattere giudiziario».

Che bilancio fa di questo intenso periodo ospedaliero?

«È stata la fase eroica della mia attività professionale in cui l’ospedale e i pazienti venivano prima di ogni cosa. Le gratificazioni che ricevevo dagli interventi andati a buon fine mi facevano superare lo stress, le mortificazioni, il tempo sottratto alla moglie e ai figli e impossibile da recuperare, i problemi anche di natura medicolegale con complicanze di natura giudiziaria che, purtroppo, per un chirurgo sono normali per non dire all’ordine del giorno. Resta l’amaro in bocca al pensiero che cause esterne alla mia volontà hanno soffocato il mio entusiasmo e la mia voglia di continuare ad accettare nuove sfide nell’ambiente ospedaliero».

Lei ha nel Dna la voglia di mettersi continuamente alla prova. Certamente non si mise a portare il suo cane ai giardini pubblici. Quindi?

«Alcuni dei miei pazienti chirurgici che erano dei comandanti della Msc Crociere, appena saputo che ero in pensione, insistettero per farmi mandare un curriculum alla direzione perché volevano che provassi a fare il medico di bordo. Mi lasciai convincere. Non passarono neanche due settimane e fui chiamato dalla sede centrale che allora era a Sorrento. Mi proposero un contratto di un mese come test. Pretesi che la nave facesse una crociera limitata al Mediterraneo e che, se l’esperienza non mi fosse piaciuta, sarei stato libero da ogni obbligo. Le mie condizioni vennero accettate. Si trattava di un lavoro completamente nuovo perché dovevo affrontare problemi medici di varia natura afferenti a materie che avevo abbandonato da tempo. Mi rimisi a studiare e sfidai ancora una volta me stesso. Diedi la mia disponibilità per un contratto più lungo a condizione però che andassi oltre oceano. Feci la mia prima “campagna” di sei mesi con la nave “Musica” che andava in Argentina, Uruguay e Brasile. Dovetti riprendere a studiare il mio inglese e migliorarlo rapidamente e per questo, prima di partire, andai da un’insegnante madrelingua per due mesi, quattro volte a settimana, un’ora e mezza di lezione ».

Quante campagne ha fatto?

«Per quattro anni consecutivi sono andato in Sudamerica, poi in Cina, e Australia. Per la mia esperienza negli ultimi due anni, fino al maggio scorso, ho fatto tre periodi di sei mesi in America con Miami come sede di imbarco ».

Con quali mansioni?

«Sono diventato rapidamente Chief dell’ospedale, cioè il responsabile della sanità della nave. Come collaboratori avevo un assistente e tre infermieri sulle navi più piccole. Sulle grandi gli assistenti erano due e gli infermieri quattro, prevalentemente donne».

Come è strutturato l’ospedale di bordo?

«Ci sono mediamente cinque stanze di degenza con dieci posti letto per ricoverare i pazienti, una piccola terapia intensiva con un posto letto, una saletta operatoria per interventi soprattutto di traumatologia. Bisogna fronteggiare tutto quello che capita e quando non si può operare occorre stabilizzare il paziente e trasferirlo nel primo porto utile o, se non c’è il tempo, organizzare uno sbarco in emergenza con la motovedetta o l’elicottero».

Qual è stato il paziente più difficile da trattare?

«Il nordamericano. È esigente, aggressivo, si sente il primo della classe e in una situazione di vantaggio rispetto a te. Devi, quindi, dimostrare di saper fare il medico ed essere alla sua altezza».

Quando si è accorto che questo nuovo lavoro le piaceva?

«Un pomeriggio ero affacciato alla balaustra della nave in compagnia di un comandante che mi parlò per oltre un’ora della sua vita di “imbarcato”. Alla fine mi disse: “adesso parlami di te”. Gli risposi che la mia storia era molto più breve: “mi sono laureato a 24 anni, sono entrato in ospedale a 25 e ne sono uscito a 58”. In quei pochi minuti, ascoltando le mie parole, mi accorsi che ero rimasto chiuso per gran parte della mia vita tra quattro mura. Poche conoscenze, amici praticamente nessuno, divertimenti altrettanto. Guardando il mare capii che era la mia finestra sul mondo. Ed è stato così perché ho conosciuto paesi, culture e civiltà diverse tra loro. In tutto il periodo in cui ho fatto il medico di bordo ho incontrato oltre 70mila persone. Parte di loro sono venute in ospedale affette anche da patologie mai viste prime e ho imparato a curarle».

Da maggio scorso, però, ha deciso di prendersi un anno sabbatico. Perché?

«Ho bisogno di riflettere. Dentro di me c’è una vocina sempre più forte e insistente che mi dice di ritornare a fare il chirurgo in una struttura privata. Ho già ricevuto delle offerte. Ancora una sfida con me stesso».