Cantante e musicista, Mario Maglione (nella foto) è un grande interprete della canzone napoletana nel mondo, è autore di una cinquantina di brani musicali e ha inciso dieci album. «Sono nato al centro storico, in vico dei Gerolomini vicino al teatro Elicantropo. Mamma si sposò con un pescatore di Mergellina e quando avevo sei anni venimmo ad abitare a Mergellina, a piazza Sannazaro, “int’a nu vico freddo e scuro”. Sono andato a scuola fino alla terza media, poi abbandonai perché non mi piaceva studiare e dovevo lavorare per aiurare a tirare avanti il ménage familiare. A quei tempi le madri andavano in giro per le botteghe e i negozi del quartiere in cerca di lavoro per i figli. Mi trovò un’occupazione precaria come garzone di un bar. Portavo i caffè a domicilio, “fuori casa”, come si diceva. Mi piaceva la bicicletta e me la facevo prestare da amici che la tenevano. Finalmente riuscii a comprarne una usata che pagai tremila lire. C’erano pomeriggi che dopo il lavoro pedalavo per ore. Mi stancavo e il giorno dopo mi presentavo a bottega senza forze. Ricordo che un giorno la padrona del bar chiamò mia madre e le disse: “ma che fa stu guaglione, nun tena a forza e faticà. Levate a mezzo sta bicicletta”. E così fu. Quel lavoro non mi piaceva perché mi sentivo a disagio con i compagni che vivevano in condizioni economiche più agiate. Subii anche un grave incidente perché fui investito da una macchina mentre portavo un caffè. Rimasi ricoverato per tre giorni all’ospedale Loreto e non ebbi alcun risarcimento neanche per la rottura degli occhiali. Ma bisognava fare di necessità virtù».

Quando scoprì la musica?

«Cominciai a frequentare l’associazione cattolica della chiesa di Piedigrotta. C’era un sacerdote molto intraprendente e attivo. Si chiamava don Giusto. Nel pomeriggio, dalle quattro alle sette, ci faceva giocare a calciobalilla e a ping pong. Aveva anche dei flipper ma per farli funzionare bisognava mettere una moneta da venti lire. Io ne ero sistematicamnete sprovvisto. Spesso me la dava lui e potevo giocare almeno una partita. Un giorno in una saletta dell’associazione vidi una batteria. Ero solo e cominciai a suonarla. Mi piacque moltissimo e scoprii che la musica l’avevo nel sangue. Don Giusto mi ascoltò e mi spronò a continuare».

Poi lasciò la parrocchia e andò dai frati Cappuccini al corso Vittorio Emanuele. Perché?

«Fu un mio amico che me lo consigliò. Mi disse che nel convento c’era un piccolo teatro e tanti stumenti musicali. Lì incontrai Marisa Laurito e Benedetto Casillo che, ragazzini come me, recitavano in una compagnia che i frati avevano messo su. Nacque con loro un profonda amicizia che dura tuttora».

In quel convento incontrò un’altra persona molto importante per lo sviluppo della sua passione musicale. Chi?

«Padre Camillo, una figura bellisssima con un’enorme carica umana. Appena mi vide mi disse: “angioletto che cosa sai fare?”. D’istinto gli risposi che sapevo suonare e cantare. Mi volle sentire. Gli piacque la mia voce e mi fece studiare canto con un maestro che era stato nel coro del San Carlo e che abitava di fronte al convento».

Ai frati Cappuccini deve anche il suo primo lavoro “in giacca e cravatta”.

«Mi accreditarono presso lo studio di un notaio del centro. Ci rimasi per qualche mese ma poi lasciai perché volevo fare il musicista per professione. Ritornai al convento e misi su un gruppo che chiamai “I figli degli angeli”. Era un quartetto composto da basso, batteria, chitarra e tastiera. Ero anche il vocalist. I pezzi erano del genere in voga in quegli anni, americani, inglesi e naturalmente italiani».

Dove ha debuttato?

«Nel teatrino del convento al primo concorso di voci nuove. Il gruppo fu la “guest star” della serata. Poi suonavamo a battesimi, cresime, matrimoni e feste private».

E la canzone napoletana?

«Il mio idolo era Peppino Di Capri per il suo modo di riproporre il repertorio delle nostre canzoni classiche. In particolare mi piaceva “Palomma ’e notte”. Tra i vari strumenti musicali che avevano i frati cappuccini c’era anche una chitarra classica. Comincia a fare i primi accordi e mi accorsi che imparavo molto rapidamente. Più progredivo e più mi innamoravo di quello strumento al punto che decisi di lasciare la batteria e dedicarmi esclusivamente alla chitarra. Appena potetti acquistai una Eko dallo storico Miletti a via San Sebastiano. Suonavo a orecchio e mi definivano un polistrumentista perché oltre alla batteria, mi “arrangiavo” bene anche con il pianoforte».

E il gruppo “I figli degli angeli”?

«Lo avevo sciolto perché volevo fare il solista e dedicarmi esclusivamente alle canzoni napoletane. In casi particolari formavo un quartetto con ragazzi del convento. Lo chiamavo “Mario Maglione e il suo gruppo”».

Come solista dove si esibiva?

«Nei locali e, d’estate, nei villaggi turistici. Nel 1972 conobbi un impresario di livello nazionale che gestiva “La vecchia fattoria” a Diamante, in Calabria. Ingaggiò me e Tony Raico, il cantante che lanciò la canzone “Eloise” in italiano. Dopo lo spettacolo ero abituato a telefonare a mia madre da una cabina telefonica di quella località turistica. Una sera mi rispose piangendo e mi disse: “torna subito perché ti è arrivata la cartolina precetto e devi partire per fare il militare”».

Durante il servizio di leva conobbe il suo grande maestro Roberto Murolo. Quale fu l’occasione?

«L’ultimo periodo di militare l’ho fatto a Napoli e avevo tempo per cantare accompagnandomi con la chitarra anche in caserma. Conoscevo il portiere di uno stabile di via Nevio, don Luigi, il quale un giorno mi informò che il maestro era stato invitato a una festa di beneficenza in una parrocchia di via Manzoni. Mi disse: “Perché non vieni anche tu e ci fai sentire qualche canzone. Ti diamo lo stesso”compenso” che riceverà Roberto Murolo: un litro di olio e un pacco di pasta. Accettai con entusiasmo. Roberto apprezzò molto il mio modo di cantare e suonare. Mi disse: “guagliò tu mi piaci perché canti in maniera personale e non mi imiti”. Fu l’inizio di una grande amicizia che è durata fino alla sua morte».

Si è mai esibito insieme a lui?

«Molte volte e ho una raccolta di fotografie che immortalano quei momenti. Mi ha insegnato che la semplicità è un forza magica, come diceva sempre Renzo Arbore quando lo ascoltava».

Finito il servizio di leva cosa fece?

«Contattai il chitarrista che fece parte del gruppo “I figli degli angeli”, Luciano Aita, e formammo il duo “I Caraccioli”, perché abitavamo entrambi a Mergellina. Gli proposi di fare musica napoletana sul genere di Fausto Cigliano e Mario Gangi. Dopo un poco, però, ritornai a fare il solista e fui ingaggiato dal patron del “Gabbiano”, un locale sul lungomare».

Un sera la vennero a sentire gli attori Nando Di Lena e Marzio Honorato e fu la svolta nella sua carriera.

«Quando smisi di cantare e suonare mi invitarono al loro tavolo mi chiesero quanto guadagnavo a serata. Risposi che il mio cachet era di 10mila lire. Nando e Marzio, che recitavano nel “Masaniello” di Elvio Porta e Armando Pugliese, con canzoni e musica di Roberto De Simone, mi dissero: “se te ne diamo 20mila, vieni con noi nel cast del nostro musical?”. Toccai il cielo con un dito e accettai immediatamente. Ho girato con loro per oltre due anni per tutta l’Italia accanto a personaggi del calibro di Angela Pagano, Mariano Rigillo, Lina Sastri e Marisa Laurito».

Quando ha inciso il suo primo album?

«Di lì a poco, quando conobbi Angelo Del Giudice, impresario di molti cantanti napoletani e cominciai a lavorare con lui. Partecipavo come artista “di apertura” di concerti di cantanti famosi. Con lui incisi il primo Lp dal titolo “Napoli sempre”. L’etichetta era sua, la Isd, e l’incisione la facemmo alla casa discografica Phonotype di via Mezzocannone. Cantai solamente perché ebbi l’onore di essere accompagnato da Raimondo Di Sandro, uno dei più grandi musicisti e chitarristi che abbiamo mai avuto».

La sua visibilità si era affacciata sullo scenario nazionale. Ma ci fu un evento che la consolidò e la rilanciò nel mondo. Ce lo racconta?

«In una serata romana mi venne a sentire il questore della Capitale, Umberto Improta, che poi è stato prefetto a Napoli. Al termine della mia esibizione mi chiamò e mi chiese se ero disposto a fare una performance privata a casa sua. Accettai onorato, organizzammo e andai. In quell’occasione, nel corso di una pausa suo figlio gli disse: “papà tu sei molto amico di Maurizio Costanzo. Perché non lo chiami e gli proponi di invitare Mario alla sua trasmissione. Sono sicuro che gli piacerà”. Il dottore Improta lo fece subito. Passò del tempo ma non accadde nulla. Lo richiamò e il 21 luglio del 1993, giorno del suo compleanno, ricevetti l’invito da Costanzo. Sono stato suo ospite per cinque anni e ho fatto circa cento puntate. Ricordo che mi esibii per la prima volta per ravvivare la trasmissione che stava calando di “tono”. Maurizio si avvicinò e mi disse: “è il momento, entra tu!”. Interpretai una “Guapparia” che è rimasta memorabile».

Iniziarono le chiamate come ospite ad altre trasmissioni, ma anche le tournée internazionali.

«Sono stato per sei mesi a “Chiamate Roma 3131”, a “Tappeto volante” con Luciano Rispoli, a “Fantastica età” con Riccardo Pazzaglia, a “Domenica in” con Gigi Sabani e a tante altre. Per quanto riguarda le tournée sono andato in Australia otto volte, in Giappone ripetutamente e in giro per l’Europa. Ho sempre portato la nostra musica napoletana».

Quanti album ha inciso?

«Una decina. In particolare “Suonno” con gli arrangiamenti di Adriano Pennino e un pezzo scritto per me da Maurizio Morante. Costanzo lo ricordava sempre quando ero suo ospite. Roberto Murolo mi fece sulla copertina una dedica bellisssima».

Quanti brani ha composto?

«Una cinquantina. In particolare ne ricordo due: “Si nascesse n’ata vota” che ho scritto insieme a Renato Rutigliano, e “Preghiera ’e piscatore”, la musica è mia e il testo è di Benedetto Casillo. L’ho dedicata a mio padre e la interpreto da oltre trent’anni alla Festa del pescatore nella chiesa di Piedigrotta. Poi “Aria ’e mare” fatta con Rino Giglio e Tony Iglio con la quale partecipai al Festival di Napoli».

Attualmente, Coronavirus permettendo, che cosa sta facendo?

«Sto sperimentando delle canzoni brasiliane che il bravissimo maestro Giuseppe Laudanna vorrebbe tradurre in italiano perché ritiene che siano particolarmente adatte alla mia voce. Poi ho in caldo una nuova tournée in Australia, già programmata, ma che ho dovuro rinviare a causa della pandemia e dove voglio portare l’inedito “’O silenzio do’ core” che Marco Fasano ha scritto per me».