Avvocato penalista iscritto all’Albo Speciale Cassazionisti e Giurisdizioni Superiori, Pino Pellegrino (nella foto) ha studio a Giugliano e a Napoli. Per molti anni è stato membro del direttivo della Camera Penale e coordinatore delle Camere Penali di tutto il distretto della Corte d’Appello di Napoli . «Sono nato a Giugliano, cittadina ricca di antiche tradizioni e che vanta una solida borghesia terriera. Ci ho vissuto buona parte della mia vita e tuttora esercito anche lì la professione di avvocato penalista in maniera non esclusiva ma comunque rilevante. Ho frequentato le elementari nell’istituto dei Fratelli Maristi, un ordine in francese, scuola di grande prestigio. Dopo le medie, mia madre volle che le superiori le facessi a Napoli, sua città natale: il ginnasio al Vittorio Emanuele e il liceo classico al Genovesi. Eravamo nella seconda metà degli anni Sessanta e, quindi, in piena contestazione studentesca. Quel liceo incarnava le istanze del movimento sessantottino molto più degli altri istituti perché era un passo più avanti e c’era un ambiente più pluralista. L’arresto di un mio compagno di scuola e carissimo amico durante una manifestazione fu un segnale che non si faceva baldoria e basta ma si contestata per motivi seri. Si chiamava Michele Di Stasio, una persona di livello superiore, di grande sensibilità e intelligenza. È stato sindaco di Mugnano, la sua cittadina, e forse il sindaco più giovane dell’Italia dell’epoca e anche consigliere regionale. È morto prematuramente».

Perché decise di iscriversi a giurisprudenza?

«Fui molto combattuto. Amavo la filosofia e mi piaceva la speculazione intellettuale. Avevo avuto il privilegio di avere uno straordinario professore di quella materia, Gaetano Siporso, un filosofo vero. Le sue lezioni erano dei monologhi preziosi dai quali rimanevo affascinato. Non mi “immaginavo” insegnante anche perché era un periodo in cui la contestazione era esasperata e mi vedevo in un futuro anch’io sbeffeggiato dagli alunni. La professione dell’avvocato, al contrario, aveva enorme prestigio soprattutto l’avvocatura penale. Quella napoletana, in particolare, era una élite. Avevo l’esempio di Luigi Palumbo, giulianese anche lui ed esponente carismatico di una famiglia molto nota e autorevole. Le nostre famiglie erano in ottimi rapporti ed ero un suo grande ammiratore. In quegli anni, poi, leggevo le cronache giudiziarie sul “Roma”, il quodidiano di casa nostra, firmate da Sandro Calenda che mi proiettavano nelle aule di giustizia nelle quali “Gigino”, uomo dal temperamento leonino, era protagonista assoluto».

Dopo la laurea fece pratica da lui?

«No, perché la sua forte personalità gli faceva assumere frequentemente comportamenti arroganti con i suoi collaboratori che io, pur vestendo l’umile abito di praticante, non avrei mai accettato. Un amico magistrato, Corrado Lembo, che poi è diventato Capo della Procura della Repubblica di Salerno, mi fece conoscere Vittorio Lemmo, un avvocato straordinario dotato di una capacità intuitiva coniugata con eleganza verbale. Quando discuteva in dibattimento era difficile che qualcun altro parlando dopo di lui potesse fare una bella figura. Sono stato il suo primo praticante e gli sono rimasto profondamente legato».

A distanza di anni la storia si è, per così dire, “ripetuta” con lei in veste di dominus.

«Ero un giovane avvocato di 32 anni e il dottore Raffaele Cantone appena laureato, venne da me a fare pratica: è stato il primo. Già da allora dimostrava di avere una marcia in più. Se avesse continuato sarebbe stato un eccellente avvocato come è un eccellente magistrato. Dopo avere ricoperto la carica di Presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, oggi è il Capo della Procura della Repubblica di Perugia. Sono molto fiero di avere avuto questo privilegio».

Le ha dedicato un capitolo nel suo primo libro “Solo per giustizia” e l’ha citata come esempio ne “I Gattopardi”, narrazione che si sviluppa in una conversazione con il giornalista Gianluca Di Feo.

«Mi cita per la correttezza professionale che ho sempre avuto nel rifiutare il mandato di difensore quando nel processo lui esercitava la funzione di pubblico ministero».

A proposito del dottore Cantone, dopo la laurea ha mai pensato di fare il magistrato?

«Ebbi un momento di incertezza ma fu proprio Corrado Lembo che con assoluta convinzione mi disse che ero nato per fare l’avvocato. Mi tolse ogni perplessità».

Perché decise di fare il penalista?

«Mi piaceva la dialettica, il confronto tra tesi opposte e la ricerca della sintesi che ho sempre cercato di raggiungere. Mi considero con orgoglio un penalista “puro” perché non ho mai voluto accettare incarichi di altra natura fin dagli inizi della professione quando i guadagni, se c’erano, erano molto modesti. Ho mantenuto questo comportamento anche da giovane marito. Lo sono diventato a 23 anni sposando Renata che avevo conosciuto in prima liceo. Incluso il periodo del fidanzamento, stiamo felicemente insieme da 60 anni. Fortunatamente conseguì precocemente l’abilitazione all’insegnamento dando un importante contributo economico per andare avanti. Abbiamo avuto tre splendide figlie: la prima e la terza, Vittoria e Alessandra, hanno seguito le mie orme e sono le mie indispensabili e insostituibili “collaboratrici” allo studio; la mediana, Livia, è psicologa».

Qual è stato il suo “debutto” professionale?

«L’ho avuto come procuratore legale nel 1979. Fu un caso più unico che raro per quei tempi ed ebbe molto scalpore».

Ci racconti in sintesi.

«Un giorno venne allo studio una signora e mi disse che suo marito Antonio X era recluso a Bologna per un delitto che non aveva commesso. Il colpevole era suo fratello Gennaro X, esperto di rapine in banca con il sistema del “buco”. Si era fatto arrestare dopo un “colpo di ingente valore” in un deposito di prodotti farmaceutici. Portava indosso documenti contraffatti dai quali risultava chiamarsi Antonio X. Somigliava al fratello anche nei tratti somatici. Dopo 5-6 mesi ottenne la libertà provvisoria. Quando la sentenza di condanna divenne definitiva, fu eseguito l’ordine di carcerazione e i carabinieri arrestarono il vero Antonio. Nel frattempo Gennaro era stato ucciso da malavitosi e il suo corpo carbonizzato, per cui chiedere alla Corte di Cassazione la revisione del processo senza nuove e inconfutabili prove era impossibile. Andavo e venivo da Bologna e un giorno venni a sapere che Antonio, nel periodo in cui era stata commessa la rapina da Gennaro, lavorava in Germania. Tramite l’autorità consolare di Stoccarda individuai il suo datore di lavoro il quale dichiarò che nei giorni da me indicati Antonio era ammalato. Per gli stessi canali diplomatici riuscii a rintracciare il medico che lo aveva curato il quale fortunatamente aveva conservato la certificazione attestante la visita domiciliare che aveva fatto ad Antonio proprio nel giorno della rapina. Questo documento mi consentì di chiedere e ottenere dalla Suprema Corte la revisione del processo che fu celebrato a Bologna. Il dominus fu proprio Vittorio Lemmo, perché io come procuratore legale non potevo esercitare fuori del mio distretto. Chiedemmo il confronto delle impronte digitali tra quelle rilevate a Gennaro al momento del suo arresto e quelle di Antonio e ottenemmo il proscioglimento e la conseguente scarcerazione. Su nostra richiesta Antonio fu anche risarcito per ingiusta detenzione. Ne parlai con il giornalista Salvatore Maffei che forse “dimenticò” la cosa. Mino Youakim lo venne a sapere, mi telefonò e fece il pezzo. Salvatore ci rimase male, cosa che ritenni ingiustificata. La notizia arrivò per altre via a Maurizio Costanzo il quale la recepì e le diede risalto sul suo quotidiano “L’Occhio”».

Si definisce un penalista “puro”. Di che cosa si occupa il suo studio?

«Di tutto il penale. In particolare, però, mi hanno sempre affascinato le questioni afferenti le colpe mediche. Sono stato per un lungo periodo difensore del direttore generale del Cardarelli. L’ultimo processo che mi rimane è quello contro il professore Eugenio Iannelli nel quale rappresento il nosocomio che, parte offesa, si è costituito parte civile. In questo ambito ho difeso anche molti funzionari della Asl Na 2. Mi appassionano, poi, i reati tributari e fallimentari. A partire dal 2011 la nostra attenzione si è rivolta verso i reati emersi dall’offensiva scagliata contro la criminalità organizzata nel giuglianese, nel corso del decennio, dal sostituto procuratore della Repubblica di Napoli, Maria Cristina Ribera, delegata territorialmente come procuratore della Dia. È un magistrato di valore con il quale c’è un rapporto reciproco di cordialità e stima. Poi ci occupiamo dei reati dei “colletti bianchi”. Nell’ultimo periodo una nostra “specialità” riguarda l’ambito delle misure di prevenzione personali e patrimoniali connesse con il codice Antimafia. Mi riferisco al sistema del “doppio binario”».

Cioè?

«Abbiamo una legislazione che, a far data dalla Legge Antimafia del 1965, si è evoluta moltissimo. Oggi come oggi anche una persona che non ha mai avuto un processo o una condanna, quindi è sostanzialmente incensurata, può essere ritenuta socialmente pericolosa sulla base di una valutazione indiziaria per una serie di comportamenti che la riguardano. Questo status automaticamente mette il suo patrimonio nella condizione di essere sequestrato a meno che riesca a dimostrare la liceità e l’adeguata provenienza delle sue risorse economiche».

Sull’argomento nei giorni scorsi ha tenuto una conferenza telematica.

«Il 9 novembre scorso su invito dell’Ordine degli Avvocati di Napoli Nord, ove io e le mie figlia siamo iscritti per amore verso il nostro territorio di origine, e della Camera Penale dello stesso Tribunale di Napoli, ho tenuto sulla piattaforma Zoom una conferenza alla quale ho invitato il magistrato Alessandra Consiglio, giudice penale. L’incontro verteva sulle misure di prevenzione e rientrava nell’ambito dei corsi di perfezionamento dei giovani difensori, anche di ufficio, iscritti alla scuola forense».

Sua figlia Alessandra si occupa anche di un settore specifico. Quale?

«Presta attenzione alle cosiddette “fasce deboli” avendo sulla materia una competenza specifica. Ha un taglio adeguato ai tempi che viviamo e ha maturato una particolare sensibilità. Sta più sul pezzo, mutuando un’espressione giornalistica».

Qual è il suo pensiero sulla riforma del processo penale?

«Sono perfettamente in linea con la posizione del Consiglio Nazionale Forense, nel senso che non gradisco che ci sia una sorta di strapotere del Pm. Ci eravamo illusi che l’introduzione del nuovo meccanismo processuale stabilisse una parità delle parti e una terzietà del giudice in generale. Ma nella realtà non è così. Naturalmente ci sono esempi autorevolissimi di autonomia del giudice. Altro problema molto importante è che non vorremmo che il processo penale si avviasse verso una cartolarizzazione. Va fatto in presenza altrimenti è tutt’altra cosa».

Per molti anni è stato membro del direttivo della Camera Penale e coordinatore delle Camere Penali di tutto il distretto della Corte d’Appello di Napoli. Perché poi ha smesso?

«Per dedicarmi interamente alla professione. Non volevo togliere spazio al processo vero, quello che si fa in Corte d’Assise. Lo senti sulla pelle, ne respiri l’atmosfera che è unica: è lì, a mio avviso, che si vede veramente l’avvocato».

Tanto tempo dedicato alla professione. Riesce ad avere una vita di relazione?

«Sì e anche abbastanza intensa con pochi ma sinceri amici. Poi mia moglie e io siamo appassionati di teatro e cinema. Il drammatico momento che stiamo vivendo naturalmente non consente di coltivare questi interessi. Però la compattezza della famiglia e l’amore profondo che la sottende è di notevole aiuto».