POMPEI. Pronunciamo “eruzione del Vesuvio” e pensiamo subito a Pompei, a Ercolano, a Stabia (79 dopo Cristo). Invece, una malaugurata esplosione del “tappo” di lava pietrificata che ne “chiude il cratere” da 80 anni (ultima eruzione nel 1944), con la colata di fuoco dalle “bocche” sulle pareti del vulcano partenopeo, investirebbe con effetti devastanti tutta la Piana Campana. Si tratta, geograficamente, dell’area pianeggiante che si estende dal Tirreno all’Appennino Campano, dal Garigliano alla Penisola Sorrentina, e che comprende anche i Campi Flegrei e il Vesuvio, risulta essere particolarmente soggetta agli effetti delle colate di lava perchè le pendici dei vulcani Vesuvio (propriamente, Somma-Vesuvio) e Campi Flegrei, insieme alle valli e ai rilievi appenninici, sono ricoperte da depositi piroclastici delle eruzioni esplosive di questi vulcani, facilmente rimobilizzabili. Cioè, questo materiale può scivolare dalla loro sede attuale dopo piogge intense e/o prolungate, ricoprendo quest’area con rischio elevatissimo per le popolazioni che la abitano. L’acqua, infatti, è uno degli elementi che accompagnano solitamente le colate di lava, creando colate di fango, o lahar, che sono uno dei fenomeni più pericolosi tra quelli che accompagnano o seguono le eruzioni vulcaniche: si tratta di grandi flussi di fango generato dai materiali espulsi dal vulcano, insieme a masse di acqua che possono incanalarsi lungo le valli ai piedi dai vulcani con effetti drammatici. L’analisi dei dati relativi a eruzioni precedenti, avvenute nel 472 e nel 1631 dopo Cristo, sono il corpo di 3 studi pubblicati sulla rivista Solid Earth dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, dalle Università di Pisa, Torino e Bari e dall’Università britannica Heriot-Watt. È emersa una serie di mappe di pericolosità probabilistica, con le relative incertezze legate anche alle differenti possibili condizioni ambientali come il vento, dei pericoli di colate laviche nell’intera area.

LE OPERE DEI BORBONE Le alluvioni, le piene dei torrenti e le colate di lava dal Vesuvio che si abbattevano sui contadini preoccupavano già i Borbone, che relizzarono opere ingegneristiche di “contenimento” delle frane di fango e rocce che scendevano giù impetuose, veloci e temibili quanto fiumi di vera lava dal vulcano. Ancora oggi sono visibili i canaloni artificiali chiamati “briglie”, edificate alle pendici del Vesuvio e del Monte Somma. Ma ormai abbandonate e riempite da terreno, arbusti e detriti che ne hanno neutralizzato la funzione. Alte più di quindici metri e larghe venti, le briglie erano possenti mura di pietra lavica capaci di correggere la pendenza dei torrenti - e di eventuali colate di fuoco - e allo stesso tempo trattenevano il materiale portato giù dalla potenza delle acque mescolata alla lava, come argini contenitori che forse, alla luce dei nuovi studi, andrebbero riconsiderati e migliorati sulla base della ingegneria moderna.