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Garantire il pane ma non sia nero

Opinionista: 

Fame. Ha detto fame, non povertà. La parola, pronunciata da Papa Francesco nel corso della messa a Santa Marta, più che appartenere al lessico della guerra al Coronavirus ha a che fare con il dopoguerra. Intendiamoci, la lotta contro la fame sulle labbra dei papi non è certo una novità. Tuttavia, è innegabile che stavolta il suo significato sia molto diverso da quello del passato. Non è alla fame mai debellata dall’Africa e dal resto del mondo che soffre che si riferiva Francesco, bensì alla fame come conseguenza del virus maledetto. Una nuova fame di nuovi poveri. Di quelli che prima che il nemico invisibile ci rinchiudesse in casa, se la cavavano lavorando a nero o con impieghi precari e discontinui. O stentavano a tirare alla fine del mese nonostante un lavoro ce l’avessero, ma pagato uno schifo. «Si comincia a vedere gente che ha fame perché non può lavorare. Cominciamo già a vedere il dopo. Verrà più tardi ma comincia adesso», ha detto il Pontefice. Ed è proprio quel dopo - il dopoguerra appunto - a fare più paura. Dopo il Coronavirus il rischio è che arrivi la fame. Anche in molte zone d’Italia e dell’Occidente, che di questa piaga avevano perduto finanche la memoria. La possibilità che sia proprio la fame l’eredità del virus più difficile da affrontare, è oggi una prospettiva terrorizzante. Se dopo le bare piene avremo i piatti vuoti, saranno cavoli amari per tutti. A pranzo e cena. Uno scenario che ci riporta indietro nel tempo, ai racconti di padri e nonni che per i nostri figli non hanno più alcun significato. E se provi a spiegarglielo, loro - immersi nella cultura dello scarto e nella società del superfluo - ti seguono come si ascolta un marziano parlare una lingua sconosciuta. Eppure, a scorrere le cronache fresche di queste ore, sul web già circolano i primi inviti alla rivolta. E non è difficile sentire sussurrare tra la gente in fila fuori ai supermercati una domanda terribile e funesta: «Ma tra due settimane come diavolo faremo?». Perché se chiudi fabbriche e aziende senza sapere fino a quando, e la gente non può più lavorare, poi è chiaro che ti devi preoccupare delle conseguenze. Se hai da parte qualche risparmio puoi sfangarla ancora per un po’, ma poi? È allora che la fame da dramma individuale diventa tensione sociale collettiva. Per impedirlo, il Governo ha stanziato 400 milioni in buoni spesa ed erogazioni alimentari. A occhio, una goccia nel mare. Pare anche che stia studiando un reddito d’emergenza maledettamente simile al reddito di cittadinanza. Tuttavia, se fin da subito non penseremo al dopo - al dopoguerra appunto - con investimenti pronti a farci rialzare, non basteranno né redditi né tessere del pane ad evitare un lungo periodo di stracci. Ma è difficile farlo, se prima l’Europa non si decide a trasformarsi da palcoscenico di vergogne ed egoismi in via d’uscita per chi cerca una soluzione alla crisi. Il mondo sta andando incontro a una Grande Depressione globale. Negli Stati Uniti in una sola settimana i sussidi di disoccupazione sono balzati da un milione a 3 milioni e passa: è questa la magnitudo del terremoto economico e sociale che abbiamo di fronte. Una crisi devastante, dalla quale si può sperare di uscire soltanto con iniziative coordinate a livello europeo e mondiale. Dire che altrimenti «faremo da soli» è una sciocchezza da comizianti da quattro soldi. L’Italia non può fare da sola per la semplice ragione che non ne ha la forza. Solo l’Europa, con le sue garanzie, può emettere il volume di debito pubblico necessario a mettere nelle tasche di lavoratori e aziende la liquidità necessaria a sopravvivere e farsi trovare pronti quando si ripartirà. Forse non è ancora del tutto chiaro: se il settore privato resterà chiuso ancora per molto, lo Stato avrà difficoltà a reperire le risorse per pagare stipendi pubblici e pensioni. La fame può correre veloce quanto il virus. Garantire il pane è giusto. Attenti che non sia pane nero.