Accessibilità:
-A A +A
Print Friendly, PDF & Email

Il nostro è il Paese delle verità negate

Opinionista: 

Come accade ormai da ventisei anni anche domani sarà celebrata solennemente la ricorrenza della strage di via D’Amelio, nella quale il 19 luglio 1992 l’esplosione di un’autobomba imbottita di tritolo fece saltare in aria il magistrato Paolo Borsellino e i quattro poliziotti della scorta. E domani si continuerà a scrivere sulla stampa: “L’eterno giallo sulla strage di via D’Amelio. La vergogna di una verità non raggiunta, di una giustizia che non arriva. E lo scandalo di un maxi depistaggio di Stato, orchestrato proprio da chi avrebbe dovuto operare per mandare in galera killer e mandanti: ed invece ha coperto, occultato, sviato”. Nonostante che siano stati celebrati quattro processi e siano stati condannarti all’ergastolo mafiosi come Totò Riina, Bernardo Provenzano, Nitto Santapaola, Pippo Calò, Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro e altri mammasantissimi. Il fratello e la figlia del magistrato continueranno a chiedere: “Che fine ha fatto l’agenda rossa di Borsellino?” e continueranno a denunciare che le condanne per quella strage “sono uno dei più gravi errori giudiziari della storia del nostro Paese, essendo stata all'epoca affermata la penale responsabilità di dieci individui per il gravissimo delitto di strage sulla base di un materiale dimostratosi, con il passare del tempo, estremamente fragile e inidoneo”. Perché questo è il Paese alla perenne ricerca della verità sui tragici accadimenti degli ultimi cinquant’anni. La si continua a chiedere sull’attentato terroristico del 12 dicembre 1969 alla Banca dell’Agricoltura di Milano, noto come la strage di piazza Fontana, che causò 17 morti e 88 feriti; sull’eccidio del 28 maggio del ’74 compiuta dal terrorismo nero a piazza della Loggia a Brescia in cui morirono 8 persone e 102 rimasero ferite; sul sequestro di Aldo Moro del 16 marzo del ’78 in via Fani (col massacro dei cinque poliziotti della scorta) e sulla sua spietata uccisione cinquantacinque giorni dopo nel covo di via Montalcini; sulla bomba che il 2 agosto del 1980 scoppiò alla stazione ferroviaria di Bologna causando la morte di 85 persone e il ferimento di altre 200; sulla terrificante esplosione dell’autobomba imbottita di tritolo che in via Pipitone di Palermo il 29 luglio del 1983 fece saltare in aria il Procuratore Capo Rocco Chinnici, i due genti della scorta e il portiere dello stabile in cui abitava il magistrato; sull’attentato dinamitardo al Rapido 904 che il 23 dicembre 1984 causò la morte di 17 persone, tra le quali un bambino di 4 anni e una bambina di 9 anni; sulla strage del 23 maggio del ‘92 quando in località Capaci dell’autostrada che collega Palermo con l’aeroporto saltarono in aria tre auto blindate con a bordo Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e 4 poliziotti della scorta. Un massacro spettacolare voluto dalla mafia palermitana per dimostrare la sua potenza. Ed è dal 25 gennaio 2016, giorno in cui il suo cadavere ferocemente torturato fu fatto trovare su una strada periferica del Cairo, che i genitori, la stampa, i governi e i parlamentari continuano a chiedere la verità sulla morte del giovane ricercatore Giulio Regeni, mandato allo sbaraglio dall’Università di Cambridge a fare una ricerca sulla libertà sindacale nell’Egitto del dittatore Abd al Fattah al-Sisi, un Paese nel quale è soppressa ogni forma di libertà e scompaiono nel nulla i corpi degli oppositori uccisi. Ma queste verità continuano a essere negate. Negli Stati Uniti d’America il 22 novembre 1963 fu ucciso il presidente John Fitzgerald Kennedy e la commissione Warren accertò che fu il comunista Lee Oswald a sparargli. E gli americani non pensarono mai a depistaggi e a complotti e non chiesero “tutta la verità” sull’assassinio del loro giovane presidente. E non la chiesero nemmeno quando il 6 giugno 1968 venne ucciso il fratello Robert, ex ministro della Giustizia, senatore in carica e in corsa per la Casa Bianca. Questione di latitudini. E di mentalità.