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Il ponte, il nascondimento e la catarsi mediatica

Opinionista: 

C’è stato un tempo in cui nella vita delle comunità era presente la dimensione del nascondimento. Vi erano degli atti che si dovevano o volevano compiere, ma per i quali era quasi naturale scegliere uno spazio ed un tempo di riservatezza, da vivere e praticare lontano dalle luci della ribalta, del clamore, della curiosità. Era ed è forse ancora il caso dei funerali di persone accusate e condannate per gravissimi reati contro la collettività, la cui sepoltura avviene all’alba, proprio per scongiurare ogni forma di sconveniente pubblicità. Era e chissà se lo sia ancora, il caso dei bagni estivi delle suore, che lasciavano i conventi nelle primissime ore del giorno, per poter godere del profumo e della bellezza del mare, ma rigorosamente lontano da occhi indiscreti, con una “castità” nello stile di vita che neppure il clima vacanziero poteva in qualche modo toccare. Era poi quel lathe biosas, quel vivere nascosto, scelto da molti non come una via per nascondersi alla legge o per rinnegare i propri doveri, ma per fuggire dall’accecante luce di una pubblicità a tutti i costi. Insomma la vita come una fiction continua, in cui esiste davvero solo ciò che si vede, in cui nulla e nessuno possono sfuggire alla inesorabile legge dell’“appaio dunque sono”. Sono riflessioni che sono tornate alla mente nell’osservare le immagini della demolizione del Ponte Morandi a Genova e di quel rito collettivo che è stato celebrato intorno ai resti di una delle più atroci ed assurde tragedie dell’Italia moderna. Quando le fontane di fumo hanno certificato la morte del ponte della morte è come se un senso di espiazione abbia pervaso le coscienze di molti di quelli erano lì convenuti. Solo in tempo come il nostro, in cui tutto è ridotto a immagine ed emozione – poteva accadere – come ha scritto Francesco Merlo che “una vergogna necessaria sia stata trasformata in fierezza nazionale, un funerale obbligato in un battesimo recitato, un rovinoso fallimento nel taglio di un nastro esplosivo e la distruzione delle rovine di una disgraziatissimo ponte in un nuovo Rinascimento”. Un nuovo ed inquietante segno di tempi in cui domina una sorta di catarsi mediatica in cui vi è l’affievolirsi di ogni linea di demarcazione tra realtà e finzione, tra rappresentazione e responsabilità. Un lavoro e un impegno vissuti, nel rigore e nel nascondimento, da parte di quanti quel ponte hanno progettato e costruito e sulla cui tenuta e sicurezza avrebbero dovuto vigilare, avrebbe evitato la perdita così ingiusta e crudele di tante vite umane, a cui nessuna demolizione in diretta può riparare. Ora sia di nuovo il tempo del silenzio, del ravvedimento, della ricostruzione, anche di una comunità che ritrovi il senso per stare insieme.