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Il problema di sempre dell’accesso a Medicina

Opinionista: 

Don Ignazio, amico di mio padre, tra donne, cavalli e macchine sportive, aveva dissipato il notevole patrimonio familiare, fatto di casolari ed uliveti. Un giorno ci incrociammo per caso e, a sua domanda, gli risposi che lavoravo al Ministero. E lui di rimando: “Povero te! Potevi farti medico o specialista in Ostetricia. Un medico è sempre un medico e se sbaglia non paga mai!” In verità non mi posso lamentare della mia vita di burocrate, perché ho potuto incontrare intellettuali e politici che mi hanno indicato alcune linee-guida di comportamento: così, un emerito Rettore della Università Cattolica mi disse che la Politica è Etica; un importante Segretario di un partito di Governo, con il quale mi lamentavo di alcuni politici, mi precisò che un Politico non deve perdere la sua Credibilità. Senza essere né politologo né moralista, mi pare che, da anni, la nostra classe dirigente abbia perso i due concetti di Etica e Credibilità. Infatti, In questi due anni di pandemia, la Gente, intesa come me e come tanti altri, è frastornata dai pareri di componenti di Comitati scientifici, di persuasori televisivi, da luminari dell’Ars medica, tutti che bisticciano in conferenze e dibattiti circa il modo migliore per domare la bestia Covid. Non avendo alcuna competenza né in Medicina, né in Economia, mi chiedo se la selezione di accesso alla Facoltà di Medicina sia migliore: o quella che viene applicata durante il corso degli studi, o quella affidata a test sbrigativi, che non si preoccupano dello standard qualitativo, acquisito dall’allievo durante i cinque anni della Scuola media superiore. Il problema non è di poco conto: quest’anno, infatti, circa ottantamila possessori di diploma di maturità, ossia di titolo legale per iscriversi a qualsiasi corso di laurea, debbono sottoporsi a sbrigativi quiz, per accedere a circa undicimila posti (programmati o a numero chiuso) del corso di Medicina e Chirurgia, attivati presso una miriade di Università pubbliche o legalmente riconosciute, sparse sul territorio italiano. Secondo accreditata letteratura: “È serio utilizzare test strampalati (talvolta anche errati e/o rettificati dopo le procedure di accesso) per capire se un giovane, mai visto e conosciuto, possa fare o meno il medico?” Questa visione /medico-centrica/ della formazione universitaria è un sonoro schiaffo alla Scuola pubblica, dal momento che essa conferisce, nel nostro caso, ottantamila titoli legali di maturità, di cui solo quindicimila (uno su cinque) vengono ritenuti idonei per superare quiz surreali. non surrogati da rigore scientifico o almeno statistico. Secondo esperienza, il metodo delle domande a risposta multipla o similari può attestare solo una gamma di nozioni, come avviene nei seguiti programmi televisivi che, in poco più di un’oretta, elargiscono, a concorrenti felici, somme notevoli e patenti di campioni e campionesse. Cosa diversa è verificare la capacità di utilizzare conoscenze, come avviene, invece, in un componimento scritto, seguito da una prova orale e/o pratica. Infine, il rapporto di vicinanza del formatore è il solo metodo per valutare l’inclinazione dello studente verso determinati settori di studio che è, di per sé, capace di colmare, con una assidua applicazione, eventuali lacune scolastiche e disciplinari, derivanti dal tipo di scuola secondaria seguita. La sola selezione operata, sul campo e durante gli anni iniziali del corso di laurea seguito, evita macroscopici ed aprioristici errori di valutazione di giovani universitari. Chissà se il nuovo ministro della Università e della Ricerca e la Crui avranno la forza di bloccare le attuali (insensate) procedure in parola, coordinandosi con i metodi utilizzati dagli altri Paesi della Unione europea: solo così si eviterebbe la corsa di nostri aspiranti medici verso altri Paesi comunitari, che hanno già percorsi formativi, armonizzati con le direttive comunitarie di settore. È meglio pescare in mare aperto che in un laghetto: i marinai sanno che in mare aperto si trovano “banchi” di pesca di notevole pregio. Ciò che vale, in ogni caso, non è il numero ma la qualità dei laureati, prescindendo da statistiche che giovano solo a Corporazioni accademiche e professionali, o al Servizio Sanitario Nazionale in affanno durante le pandemie. Forse è il timore che una libera iscrizione alla facoltà in parola produrrà una pletora di medici? Via! Esperienza insegna, a chi sa di cose universitarie, che l’abbandono della scalata verso una laurea difficile, è criterio selettivo naturale già dal primo anno e stana le istanze velleitarie di seguire Ippocrate.