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Il Renzi “scacciacrisi” un incubo per Conte

Opinionista: 

Sono passati pochi giorni dal dibattito parlamentare sulle due mozioni di sfiducia contro il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, sott’accusa e per la torbida storia della “libertà provvisoria” a pericolosissimi boss e per il giallo del “dap” promesso, e poi negato al giudice Di Matteo, e giova tornare su questo snodo, tutto politico. Per dire subito che mai, come in questa circostanza, la politica ha mostrato, sottilmente, il peggio di sé. Spesso si è pensato che il peggio fosse il lancio di insulti, di minacce con qualche scontro fisico. Stavolta, invece, esso si è consumato nella più protocollare e ortodossa disciplina. Per il peggio intendiamo il riscontro, concentrato addirittura nel solo “intervento clou” di Renzi, dei mali più squalificanti, come ipocrisia, cinismo, ambiguità, avvertimento, premeditazione e opportunismo. Il leader di “Italia Viva”, un partitino del 3% ma decisivo in questa circostanza, li ha incarnati tutti, con una dialettica coinvolgente e il ricorso alle fondamentali figure della retorica, da poterli incorniciare tutti nei saggi della spregiudicatezza politica, al cui confronto è un’ingenuità “Il fine giustifica i mezzi” del Machiavelli. È ipocrisia Renzi che rassicura Bonafede, il ministro Guardasigilli, di non ritenerlo responsabile di certe nefandezze per poi bacchettarlo con una raffica di rinfacci: d’essere un giustizialista di antico conio, un cultore del sospetto. Parole offensive, a nostro avviso, irricevibili per un ministro della giustizia in carica. Che se fosse stato altro, cioè disinteressato al potere e coerente con la sua autodifesa - di avere la schiena diritta - avrebbe dovuto, seduta stante, chiedere il ritiro di quanto da Renzi esternato e qualora questi non lo avesse fatto, dimettersi subito. Scelta di dignità, essendo parole del genere, venute da un alleato di governo, “padre” di questo esecutivo. Cinismo, per aver elencato, una per una, con significativa pausa finalizzata a ricevere maggiore attenzione dall’aula , tutte le vittime, amiche e anche di famiglia, finite nel “tritacarne forcaiolo dei Cinquestelle”: messe alla gogna da un Movimento abietto e poi scagionate in sede di giudiziaria. Nel momento in cui avrebbe potuto ricambiare pan per focaccia, è impossibile farci credere d’essere stato appagato soltanto dal piacere di ricordarlo al ministro. Ancora una volta a prevalere su ogni altra giusta e nobile ragione, è stato l’ambizioso “calcolo politico”. In tutto questo capolavoro dialettico renziano, fitto di arrivismo e opportunismo, molti opinionisti hanno però tralasciato di commentare un altro passaggio cruciale per il futuro. Riguarda l’avvertimento esplicito a Conte, al quale Renzi, mentre ne esaltava il ruolo, gli ricordava che solo grazie a lui sarebbe rimasto ancora a Palazzo Chigi, intimandogli un cambio di passo. Come se fosse già l’azionista di maggioranza del Governo, considerando Zingaretti una comparsa da “cine panettone” nell’odierno esecutivo. Qualcuno ha ridimensionato il “caso Bonafede”, ricorrendo al titolo di una commedia shakespeariana, cioè da “Molto rumore per nulla”. Altro che nulla, c’è tanto. Renzi, dopo il salvataggio di Bonafede, è più forte e costituirà un incubo per Conte. La sua cinica strambata “perdonista” gli permette, d’ora in avanti, di poter fare una crisi, quando lo vorrà, senza poter essere attaccato. Avendo dimostrato di aver fatto due cose: messo da parte i risentimenti personali e privilegiato il “bene del Paese”. In realtà, i suoi imprevedibili azzardi. Torna di attualità il libro di Carlantonio Solimene: “State sereni: l’Italia è una Repubblica fondata sul tradimento”. “State sereni: l’Italia è una Repubblica fondata sul tradimento” (Juppiter Edizioni).