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Instabilità e conflittualità

Opinionista: 

Un dato che senza dubbio caratterizza l’attuale sistema politico italiano e lo distingue da quelli presenti in democrazie d’omologo livello: l’elevato tasso d’instabilità, se non addirittura la tendenza alla rissa che si registrano all’interno delle formazioni partitiche. Organizzazioni per eccellenza, i partiti avrebbero in astratto il compito d’aggregare, per darvi forma stabile, il consenso che ricevono da diversificate tipologie d’interessi, e quindi di rappresentarlo nei modi e nei luoghi idonei a produrre coerenti regole di vita associata. Questo in teoria. In Italia s’assiste ormai da oltre un ventennio ad uno scenario d’instabilità e ad un quadro di conflittualità tanto elevato da rendere altamente problematica l’essenziale funzione d’articolazione della domanda e della risposta politica. Perché la conflittualità, lungi dallo svilupparsi utilmente tra partiti, si presenta altissima all’interno dei partiti. È sufficiente osservare il fenomeno. Nel Partito democratico, cui competerebbe al momento la responsabilità di governo, fa storia non l’elaborazione della proposta ma lo stillicidio quotidiano di polemiche tra il contestato personalismo della leadership fiorentina e le numerose minoranze interne, facenti capo chi all’uno chi all’altro dei non pochi ex, delusi, o emergenti mancati, tutti a minacciare a giorni alterni scissioni e rifondazioni, nemmeno troppo discretamente fomentate dal sindacato della sinistra. In Forza Italia ci sono almeno due, consistenti fronde interne, capeggiate da ex fedelissimi dell’ancora non sostituibile, a quel che sembra, Silvio Berlusconi, per non parlare della scissione guidata da Alfano in occasione della fiducia al governo Letta e delle formazioni satelliti con poteri di ricatto, genere Gal. La Lega ha consumato proprio in questi giorni una guerra fratricida, che ha portato all’espulsione sanguinosa dal partito d’uno dei suoi più apprezzabili dirigenti, dopo che appena due anni fa era stato praticamente defenestrato il segretario storico del partito, Umberto Bossi. Quel che sta accadendo nel Movimento Cinque Stelle ha poi dell’imperscrutabile, tal è il grado di continua trasformazione, di persone e programmi, che si registra in quella formazione mobile. E questo senza mettere neanche in conto quel continuo scorrere carsico del trasformismo nelle due camere, dove quasi ogni giorno si verificano passaggi di parlamentari dall’uno all’altro gruppo. Ora, un siffatto fenomeno d’instabilità non può in alcun modo ascriversi alla fisiologica dinamicità della politica; questo costante rischio di frantumazione delle organizzazioni che dovrebbero aggregare e costantemente metabolizzare le istanze provenienti dalla società generale e dalla stessa comunità politica, è espressione d’un’evidente patologia italiana. Che io non credo di sbagliare ascrivendola all’abnorme presenza di funzione giudiziaria nei processi propri della mondo politica. Ho sempre pensato che Silvio Berlusconi fosse un boccone troppo grosso per essere ingollato dai processi giudiziari senza che l’intero, assai esile, apparato istituzionale italiano ne rimanesse destabilizzato sin nelle fondamenta. È di tutta evidenza che queste continue incursioni – non importa quanto giuridicamente fondate – della repressione penale nel mondo della politica, abbiano sottratto a quest’ultimo i tempi ed i processi della propria metabolisi. Hanno cioè privato la politica della sua sovranità e soprattutto della sua capacità di darsi i sovrani che, nella più o meno accettabile ipocrisia democratica, si sarebbero avuti. Dal 1992 in poi – dalla decapitazione per via giudiziaria della classe politica democratico-cristiana e socialista – può dirsi che la magistratura italiana sia stata, volutamente o meno, coprotagonista di tutte le trasformazioni ai vertici del potere avutesi in Italia sino ad oggi. I processi (a Berlusconi, principalmente, ma non solo) hanno fatto poi da costante sfondo agli scenari della politica, creando una stabile instabilità ed un ambiente da faida e da delazione, sull’onda dei quali sono caduti e risorti governi (Berlusconi); emersi o affossati più o men definitivamente leaders (Prodi-Dalema, Di Pietro, Bossi, Fini, lo stesso Grillo), e dirigenti di partito; creati esecutivi dall’oscura provenienza (Dini, Campi, Monti, Letta); emersi improvvisamente capi in nessun modo legittimati per la via democratica (Renzi). Ma soprattutto ha trasformato l’azione giudiziaria, da correttivo eccezionale di deviazioni, a funzione della politica, creando anche un transito inarrestabile d’uomini dalla magistratura alla politica, oltre all’idealizzazione di giudici tanto salvifici quanto nella realtà privi di mezzi per realizzare effettivi successi. A me pare che al fondo sia questo il problema, senza eliminare il quale l’Italia difficilmente costituirà nuove solide basi istituzionali: questo disassamento del baricentro della politica costantemente destabilizzata dall’esterno, ostacolata nei meccanismi vitali. Se la magistratura da un lato e la politica dall’altro – questa soprattutto moralizzandosi, quella autolimitandosi – non faranno passi decisivi, non ci sarà uomo del destino che potrà davvero rifare l’Italia competitiva ed attrattiva, perché nessuno è in grado d’operare efficacemente senza il supporto di un’organizzazione efficiente.