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La partitocrazia oggi? Si chiama populismo

Opinionista: 

Per quanto si discuta e si rifletta, in queste ore, sugli esiti della tornata elettorale amministrativa ancora in corso, in vista di numerosi e decisivi ballottaggi, emerge in misura sempre più chiara e netta che, nel nostro Paese, la partitocrazia non è morta ma sono morti i partiti. Sembra una boutade ma è così. Chiariamo però subito, a scanso di equivoci che, nel parlare di partitocrazia, non ci riferiamo più a quella del passato, come l’abbiamo vissuta e sofferta, con le degenerazioni che portarono alla sua scomparsa, ma a una partitocrazia composita e di vario segno e però altrettanto gratificante sul piano elettorale. Per capirci meglio: una di carattere rigorosamente informatico, che viaggia in rete, giudica e manda, attiva e operante in tempo reale con piena soddisfazione dei naviganti, strutturati meglio e con più disciplina - checché se ne dica - di un classico partito; un’altra populista, fondata su gruppi di un ribellismo rivendicativo dell’universo mondo, composta da auto-emarginati, comitati permanenti di vaghi impegni sociali, una costellazione di associazioni, di gruppi spontaneisti velleitari, e una terza, di segno eminentemente territoriale e positivo, ancora sostenuta e sorretta dalle tradizionali sezioni con un impegno di base che segue e affronta tutte le risorgenti problematiche cui vanno incontro le comunità periferiche. Sotto questa chiave di lettura può leggersi e capirsi larga parte degli esiti elettorali, rispettivamente, di Movimento 5 Stelle a Roma , a Torino, di De Magistris a Napoli, dell’affermazione della Meloni a Roma - seppur non vincente, su Giachetti - e del sindaco, Napoli, eletto al primo turno, in quel di Salerno. Detto questo, non ci resta che parlare delle crisi del Pd e del centrodestra, dove siamo ancora alle “prove d’orchestra”, con un Pd, che continua a reggersi, nel bene e nel male , su un Renzi ubiquo, orfano però definitivamente dello “zoccolo duro e nuovo” della vetero sinistra, già logorato da un governo ondivago e di un centrodestra, con la componente alfaniana, annullatasi e inglobata dal ciclone renziano e di quella invece berlusconiana, ancora nel guado, costretta, di volta in volta, a ricorrere alla società civile, a figure come Parisi a Milano, Lettieri a Napoli, Marchini a Roma, per cercare di risalire la china, resa impossibile, a nostro avviso, dalla presenza di un notabilato, di un cinismo unico nel gestire un declino in atto, guardando soltanto a salvare il proprio angusto e domestico orticello. Poiché questa frammentazione, brodo di coltura dei peggiori populismi, sta creando un’Italia Arlecchino, non solo nelle policromie di mille formazioni ma anche nel segno del peggiore dei trasformismi, oggi l’unico modo per ricostruire una seria proposta di futuro e di progettualità è il ritorno alla formula di partito, immune dei vecchi vizi e da ipoteche egemoniche. È questa l’unica arma per neutralizzare un dilagante affastellamento di proclami e anatemi, che non producono nulla di buono ma solo follie. Napoli docet.