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La strana eutanasia della banda di Grillo

Opinionista: 

Il sottile paradosso della politica italiana resta, purtroppo, legato alle dinamiche tattiche dei 5 Stelle, un movimento che appare, ormai, in eterna, altalenante fibrillazione. Il voto in Umbria ha avuto la forza di cancellare definitivamente le sue radici. Conosciuto il potere a livello nazionale, imborghesite le loro battaglie, privi di un qualsiasi, serio profilo culturale, i pentastellati si sono trasformati in una forza politica senza contorni, definitivamente postideologica, in grado di allearsi con chiunque pur di raggiungere comode poltrone. E, in questo caso, non vale tanto il modestissimo risultato elettorale raggiunto, quanto l’ immagine slabbrata e confusa data al Paese, che semina nuove inquietudini nelle soldataglie di Grillo. L’Umbria era, poi, la piattaforma più difficile sulla quale disegnare sperimentazioni. Il Pd, infatti, viveva qui un ulteriore, difficile momento legato alle inchieste sulla sanità che avevano costretto alle dimissioni la presidente Catiuscia Marini. Il segretario Zingaretti ha provato, con una mossa un po' disperata, a recuperare una maggioranza, ma i tempi erano strettissimi ed il quadro politico fortemente compromesso. E adesso, come in uno scenario kafkiano, arriva l’Emilia Romagna e poi la Calabria, altri test estremamente complessi. Di Maio ha già dichiarato che il laboratorio (magica parola per giustificare una sconfitta) non si ripeterà, che i 5 Stelle correranno da soli, anticipando scelte che andrebbero meglio ponderate e provando a tamponare le falle interne. Ma la realtà è sotto gli occhi di tutti. Da tempo il centrodestra vince a mani basse in tutte le Regioni perché il sistema elettorale esige la logica delle coalizioni. Pd e 5 Stelle separati sono il comodo zerbino sul quale Salvini e i suoi alleati transitano in trionfo. In questa chiave, il più lucido appare oggi il ministro Franceschini che, al di là della sconfitta umbra, parla di un’alleanza da allargare ulteriormente a Renzi, alle civiche, a qualsiasi forza di sinistra abbia voglia di collaborare. Solo allungando il tavolo, il centrosinistra può diventare competititivo. Ecco perché, oggi, la posizione di Di Maio appare oggettivamente suicida. Quasi un’eutanasia. E la scusa di ascoltare, in prospettiva, i livelli locali del Movimento è una semplice furbata per tenersi una porta aperta, degna del ricorso a Rousseau. Ma il vero convitato di pietra resta Matteo Renzi, chiamato ora, rapidamente, ad un ruolo diverso rispetto agli esordi di questo nuovo governo. Le palesi aritmie tra i due partiti maggiori, la fresca competitività emersa, le tensioni del passato costringono l’ex premier ad una posizione politica nuova, raramente conosciuta in passato. Renzi si trova oggi nella necessità di diventare il vero, autentico mediatore di questo governo, l’uomo che spegne i fuochi di guerriglia, il deterrente di ogni polemica. Deve portare necessariamente la legislatura al 2022, per essere tra i protagonisti della scelta al successore di Mattarella ma, soprattutto, deve strutturare e organizzare il suo partito, facendone forza numericamente decisiva per il futuro del Paese. Non può assolutamente rischiare il ricorso anticipato alle urne. Deve quindi indossare una maschera nuova, interpretando un ruolo, che, forse, non è nemmeno nel suo tradizionale spartito. Ma è un senso unico, in un vicolo senza uscite.